Sull’obbligo di protezione dal rischio di caduta dall’alto
È comunque necessario in un cantiere adottare delle misure di protezione contro il rischio di caduta dall’alto, anche se non è in corso una lavorazione vera e propria per cui un lavoratore può venire a trovarsi in una postazione in quota tale da rendere pericolosa una sua caduta, ma è in corso solo una fase prodromica alla stessa? E’ questa la domanda alla quale la suprema Corte ha dovuto dare riscontro per decidere su di un ricorso presentato da un direttore tecnico di cantiere delegato alla sicurezza condannato nei due primi gradi di giudizio per lesioni colpose perché ritenuto responsabile dell’infortunio di un lavoratore e che aveva basato la sua difesa su tale assunto, sostenendo sostanzialmente che il rischio dal quale occorre difendersi è quello che si presenta durante lo svolgimento concreto di una attività lavorativa.
La suprema Corte, nel rigettare il ricorso presentato dal tecnico, ha precisato e sostenuto in merito che è la semplice esistenza di postazioni di lavoro in quota che possono esporre al rischio di caduta dall’alto che impone l’adozione preventiva delle misure prescritte per la sua protezione e la permanenza delle medesime sino a quando le lavorazioni non siano cessate. Erroneamente quindi, secondo la stessa, il ricorrente aveva proposto una definizione del rischio di caduta dall’alto quel rischio che richiede una protezione solo se un lavoratore è occupato nel lavoro e solo durante il suo svolgimento. Ben diversamente tale rischio, ha precisato in merito la suprema Corte, è quello determinato dalla mera allocazione di postazioni di lavoro ad una quota tale da rendere la caduta pericolosa per l’uomo facendo presente che l’art. 122 del D. Lgs. n, 81/2008 menziona il pericolo di caduta di “persone e di cose” senza specificare che facciano riferimento alla qualità di lavoratore oppure ad un particolare tempo o a una fase della lavorazione.
Il fatto, l’iter giudiziario e il ricorso per cassazione
Il direttore tecnico di cantiere delegato alla sicurezza del lavoro nell’ambito di un’impresa edile ha proposto ricorso per cassazione, a mezzo del proprio difensore di fiducia., avverso la sentenza con la quale la Corte di Appello aveva confermata la pronuncia emessa dal Tribunale, con la quale era stato giudicato e condannato per il reato di cui all’art. 590 cod. pen. per avere cagionato, per colpa, delle lesioni personali a due lavoratori.
Secondo l’accertamento condotto nei gradi di merito uno dei due lavoratori era salito sulla sommità di una struttura ad un’altezza di circa quattro metri e mezzo dal suolo allorquando, avendo perso l’equilibrio e a causa della mancanza di un ponteggio prospiciente il lato sul quale si trovava, era caduto al suolo mentre l’altro lavoratore, che si trovava sugli ultimi pioli della scala utilizzata per raggiungere la sommità della struttura, era caduto anche egli al suolo nel tentativo di trattenere il collega.
Più in particolare, nel cantiere erano in via di edificazione alcune casseformi in cemento armato, che dovevano raggiungere l’altezza di sette metri. Il lavoratore si era recato sulla sommità della struttura non per la necessità di attendere ad una lavorazione da compiersi sulla stessa ma per prendere una borsa di attrezzi che vi aveva lasciata e necessaria per procedere al lavoro su una diversa cassaforma. Lo stesso, una volta in quota, aveva perso l’equilibrio ed era caduto travolgendo il collega che, utilizzando la stessa scala già utilizzata dal collega, stava salendo sulla struttura per raggiungerlo. All’imputato era stato rimproverato di non aver adottato un ponteggio sul lato della struttura presso il quale si era verificato l’incidente, nonostante i lavori dovessero svolgersi ad una quota che ne imponeva l’adozione.
Il ricorrente si è lamentato per essere la Corte di Appello ricorsa ad un sillogismo secondo il quale siccome nei lavori in quota sono obbligatori i ponteggi l’infortunio si era verificato per l’assenza dello stesso e per non essere stato considerato se le persone offese al momento dell’incidente fossero in postazione di lavoro e fossero impegnate in una fase della lavorazione. La stessa Corte di Appello aveva ritenuto che al momento dell’accaduto fosse in corso una sorta di lavorazione prodomica alla gettata che aveva richiesto l’accesso a una postazione per salire sulla quale i lavoratori erano caduti.
Come seconda motivazione il ricorrente ha denunciata una violazione di legge in relazione agli artt. 590, 40, 41 e 43 cod. pen. e 192 cod. proc. pen. laddove era stato escluso il carattere abnorme della condotta delle persone offese per avere utilizzata una scala, nonostante fosse stato dimostrato che le lavorazioni non ne contemplavano l’uso.
Le decisioni in diritto della Corte di Cassazione
Il ricorso è stato ritenuto infondato dalla Corte di Cassazione. In particolare la stessa ha ritenuta infondata la tesi sostenuta dal ricorrente secondo la quale non essendo attuale la lavorazione sulla struttura non sussistesse l’obbligo di installazione del ponteggio. “L’esistenza di postazioni di lavoro in quota”, ha precisato infatti la Sez. IV, “impone la previa adozione delle misure prescritte e la permanenza delle medesime sino a quando le lavorazioni non siano cessate”. Il ricorrente erroneamente aveva proposta una definizione del rischio, traguardato dalle norme cautelari pertinenti al caso, il ‘ rischio di caduta del solo lavoratore occupato nel lavoro e solo durante il suo svolgimento’. Il rischio considerato invece è, ben diversamente, quello determinato dalla mera allocazione di postazioni di lavoro ad una quota tale da rendere la caduta pericolosa per l’uomo. Basti considerare, ha aggiunto la Sez. IV a conferma di quanto sostenuto, che l’art. 122 menziona il pericolo di caduta di ‘persone e di cose’, senza specificazioni che facciano riferimento alla qualità di lavoratore, ad un particolare tempo, o a una fase della lavorazione.
La circostanza che il lavoratore infortunatosi si trovasse in quota per ragioni non inerenti lo svolgimento del lavoro da compiersi sul posto, ha affermato la Sez. IV, non si riflette quindi sulla sussistenza dell’obbligo cautelare ma sulla valenza della medesima quale causa da sola sufficiente a cagionare l’evento tipico. Per tale profilo la stessa Corte suprema ha rammentato che è ormai consolidato il principio secondo il quale siffatta causa è costituita dal fattore che innesca un rischio eccentrico rispetto a quello gestito dal garante che nel caso in esame era il datore di lavoro. “In tema di infortuni sul lavoro”, ha aggiunto, “la condotta esorbitante ed imprevedibilmente colposa del lavoratore, idonea ad escludere il nesso causale, non è solo quella che esorbita dalle mansioni affidate al lavoratore, ma anche quella che, nell’ambito delle stesse, attiva un rischio eccentrico od esorbitante dalla sfera di rischio governata dal soggetto titolare della posizione di garanzia”
Nel caso in esame, ha così proseguito la suprema Corte, era stato accertato che uno dei lavoratori infortunati si era portato sulla sommità della struttura per prendere la borsa degli attrezzi che vi aveva lasciato in precedenza e che l’altro stesse salendo la scala per verificare cosa stesse facendo il collega. Quindi si è trattato di una presenza sul posto che ha trovato origine proprio nella necessità di assolvere ai compiti affidatagli e che pertanto ha proposto un rischio tipicamente lavorativo. Né imprime una diversa connotazione a tale rischio, lasciando il campo ad un rischio eccentrico, l’uso della scala, posto che, come affermato dalla Corte di appello, essa costituiva la via di accesso alla sommità della struttura predisposta in luogo del ponteggio e più percorribile più rapidamente rispetto a questo.
In conclusione, a seguito del rigetto del ricorso il ricorrente, a norma dell’art. 616 cod. proc. pen., è stato condannato al pagamento delle spese processuali.