Coronavirus e sicurezza: la nuova dimensione del sistema di prevenzione
In questa fase di emergenza COVID-19 in cui ci troviamo ad avere a che fare con numerosi decreti e protocolli che modificano notevolmente non solo la nostra vita quotidiana ma anche il nostro rapporto con il mondo del lavoro, sono necessarie utili riflessioni per comprendere non solo quello che sta avvenendo oggi, ma anche quello che sta cambiando e cambierà domani nel sistema di prevenzione aziendale.
Ad aiutarci a fare utili riflessioni in tal senso è un contributo pubblicato su “Diritto della sicurezza sul lavoro”, rivista dell’Osservatorio Olympus e pubblicazione semestrale dell’ Università degli Studi di Urbino – Dipartimento di Giurisprudenza. Un contributo di Paolo Pascucci, professore ordinario di diritto del lavoro nell’Università di Urbino Carlo Bo, dal titolo “Coronavirus e sicurezza sul lavoro, tra “raccomandazioni” e protocolli. Verso una nuova dimensione del sistema di prevenzione aziendale?”
Il breve saggio del Prof. Paolo Pascucci sottolinea che l’emergenza del coronavirus ha generato una serie di delicate questioni interpretative “che, nell’ambito del diritto del lavoro, riguardano anche l’applicazione della disciplina prevenzionistica per la tutela della salute e della sicurezza sul lavoro di cui al d.lgs. n. 81/2008”. E la gestione dell’emergenza in atto, “proprio perché intimamente connessa alla tutela della salute delle persone, rischia di creare veri e propri corto circuiti con la disciplina di tutela della salute e sicurezza sul lavoro, sottoposta, come mai prima d’ora, ad una tensione che rischia di incrinarne alcuni principi essenziali”.
Il saggio analizza anche i recenti provvedimenti emanati per contrastare l’emergenza causata dalla diffusione del nuovo coronavirus e le ricadute che tale emergenza può produrre sul sistema di prevenzione aziendale delineato dal d.lgs. n. 81/2008 per la tutela della salute e sicurezza dei lavoratori.
Il nuovo coronavirus e la valutazione dei rischi aziendale
Il saggio entra subito su un tema che ha suscitato, anche sul nostro giornale, vivaci discussioni: la valutazione dei rischi.
L’autore segnala, infatti, che subito all’indomani della manifestazione dell’epidemia del virus Sars-CoV-2 “è emerso il problema relativo all’obbligo o meno di aggiornamento della valutazione dei rischi, la quale, come prevede l’art. 29, comma 3, del d.lgs. n. 81/2008, ‘deve essere immediatamente rielaborata, nel rispetto delle modalità’ di cui all’art. 28, commi 1 e 2, ‘in occasione di modifiche del processo produttivo o della organizzazione del lavoro significative ai fini della salute e sicurezza dei lavoratori, o in relazione al grado di evoluzione della tecnica, della prevenzione o della protezione o a seguito di infortuni significativi o quando i risultati della sorveglianza sanitaria ne evidenzino la necessità’, con il conseguente aggiornamento delle misure di prevenzione”. Una valutazione dei rischi che rappresenta la ‘valutazione globale e documentata di tutti i rischi per la salute e sicurezza dei lavoratori presenti nell’ambito dell’organizzazione in cui essi prestano la propria attività, finalizzata ad individuare le adeguate misure di prevenzione e di protezione e ad elaborare il programma delle misure atte a garantire il miglioramento nel tempo dei livelli di salute e sicurezza’ (art. 2, lett. q; art. 28).
Il rischio di contagio da coronavirus deve essere preso in considerazione dal datore di lavoro aggiornando la valutazione dei rischi già effettuata ed il relativo documento?
Per rispondere a tale quesito – continua l’autore – “non basta far leva sul fatto che la legge impone di valutare ‘tutti’ i rischi, dovendosi invece considerare che il legislatore ha chiaramente indicato che deve trattarsi di ‘tutti’ i rischi presenti nell’ambito dell’organizzazione in cui operano i lavoratori, vale a dire i rischi specifici che sono connessi al contesto strutturale, strumentale, procedurale e di regole che il datore di lavoro ha concepito e messo in atto per il perseguimento delle proprie finalità produttive”.
È evidente che, “manifestandosi attraverso il contatto tra le persone, il rischio biologico derivante dal coronavirus ben può insinuarsi nelle organizzazioni produttive in cui sono presenti persone che lavorano. Ma è indubbio che – fatte salve alcune specifiche attività lavorative, come ad esempio quelle che si svolgono nei servizi sanitari ed ospedalieri – negli altri casi, lungi dal tramutarsi in un rischio specifico professionale, si tratta di un rischio generico che non nasce dall’organizzazione messa in campo dal datore di lavoro o che necessariamente si manifesta in tale organizzazione, ma che semmai ‘approfitta’ dell’organizzazione e del complesso sistema di relazioni personali su cui essa si regge per manifestarsi e diffondersi, provenendo dall’esterno dell’organizzazione medesima: è il caso del lavoratore che si contagi in un ambiente esterno all’azienda e, andandovi a lavorare, vi introduca il virus”.
Si ricorda poi che la specifica disciplina dell’esposizione ad agenti biologici prevista dal Titolo X del d.lgs. n. 81/2008 (artt. 266-286) “si riferisce ‘a tutte le attività lavorative nelle quali vi è rischio di esposizione ad agenti biologici’ (art. 266, comma 1):
- o in quanto il datore di lavoro deliberatamente «intenda esercitare attività che comportano uso di agenti biologici», derivandone specifici obblighi di comunicazione ex art. 269, comma 1, o di autorizzazione ex art. 270, comma 1;
- o in quanto, pur non avendo «la deliberata intenzione di operare con agenti biologici» (art. 271, comma 4), il datore di lavoro organizzi attività lavorative che, per la loro modalità di esercizio, possono implicare il rischio di esposizioni dei lavoratori a tali agenti, come tutte le attività elencate a titolo esemplificativo nell’Allegato XLIV al d.lgs. n. 81/2008, o attività in cui il rischio biologico sia intimamente connesso all’uso di certi strumenti o a certe modalità della lavorazione (si pensi al rischio tetanico nella attività di falegnameria ecc.)”.
Tuttavia si tratta di ipotesi “ben differenti da quelle – come nel caso del coronavirus o, se si vuole, dei ‘normali’ virus influenzali – in cui un agente biologico ‘esterno’ – agendo su di un ambito territoriale praticamente sconfinato – si insinui improvvisamente anche in un’organizzazione produttiva in cui non sono presenti o ‘dedotti’ agenti biologici”.
Il rapporto tra l’organizzazione aziendale e la salute pubblica
Partendo da queste premesse c’è da chiedersi se con il nuovo coronavirus siamo di fronte ad un problema di organizzazione aziendale o di salute pubblica.
Non si può giungere – continua l’autore – alla “paradossale conseguenza per cui qualunque fatto ‘esterno’ che si rifletta sull’azienda divenga un rischio professionale. Fra l’altro, la normativa prevenzionistica di cui al d.lgs. n. 81/2008 ha natura penale, come tale soggetta a stretta interpretazione, e pertanto, quando essa obbliga a valutare i rischi insiti nell’organizzazione, delle due l’una: o si ritiene che qualunque rischio che si interfacci con l’organizzazione sia un rischio dell’organizzazione, o invece si tengono distinti i veri rischi professionali da tutti gli altri rischi”.
Tuttavia, indica il saggio, “la questione dei c.d. rischi “esogeni” è seria”.
Si ricorda il caso dell’impresa che invii un proprio lavoratore in un paese con un alto rischio di terrorismo “ben può dirsi che nell’organizzazione di tale impresa – intesa in senso non reificato come il progetto produttivo e come il complesso delle regole che lo governano, compreso l’invio di lavoratori all’estero – è insito quel rischio. E altrettanto dicasi per un rischio da contagio ove si inviino lavoratori in paesi nei quali sia nota e prevedibile la presenza di epidemie. Ovviamente il datore di lavoro dovrà valutare quei rischi e, ove non possa evitarli, dovrà mettere in atto tutte le misure atte a contrastarli e ridurli”.
Nel caso del nuovo coronavirus “le cose stanno diversamente. Intanto non si tratta di un rischio che grava su di una o più organizzazioni, ma sul mondo intero, a qualunque latitudine e a prescindere da ciò che si fa e da dove si è. Mentre nel caso del terrorismo si potrebbe evitare il rischio non inviando il lavoratore all’estero o magari facendolo lavorare con gli interlocutori di quel paese in smart working, nel caso del coronavirus neppure facendo lavorare i lavoratori a casa o altrove in smart working si può essere certi di evitare il contagio: paradossalmente il lavoratore potrebbe essere più al sicuro in un’azienda in cui si adottino misure precauzionali che altrove. Qualunque modalità organizzativa si adotti, il rischio di contagio da coronavirus, più o meno intenso, esiste sempre perché è immanente sul mondo, finché non si troverà il vaccino”.
In questo senso “di fronte alla comparsa di un rischio biologico generico che minaccia la salute pubblica spetta alle pubbliche autorità – disponendo esse istituzionalmente dei necessari strumenti (competenze scientifiche e poteri) – rilevarlo, darne comunicazione, indicare le misure di prevenzione e farle osservare. Ad esse il datore di lavoro si dovrà adeguare, dovendo ovviamente rispettare il precetto generale di cui all’art. 2087 cc., senza che per questo debba stravolgere il proprio normale progetto prevenzionistico in azienda. Tali misure si affiancheranno provvisoriamente – per la durata della fase di emergenza – a quelle ordinarie, conservando la propria distinta natura e funzione”.
E quindi la valutazione di quel rischio è “operata a monte dalla pubblica autorità, ai cui comandi il datore di lavoro dovrà adeguarsi adattando a tal fine la propria organizzazione alle misure di prevenzione dettate dalla stessa pubblica autorità. Tale riorganizzazione non è altro che un adeguamento alle direttive pubbliche e, come tale, non pare costituire un vero e proprio aggiornamento della valutazione dei rischi ex art. 29 del d.lgs. n. 81/2008, con la conseguenza che l’inosservanza delle direttive pubbliche rileverebbe non ai sensi dell’art. 55 dello stesso decreto, quanto in relazione alle speciali sanzioni pubblicistiche sancite dalla pubblica autorità”.
Di fronte all’emergenza in atto, “la pubblica autorità, per evidenti esigenze di salute pubblica, ha avocato a sé quei poteri che normalmente spetterebbero al datore di lavoro, sospendendo in certi casi lo stesso esercizio dell’iniziativa economica privata (v. i nn. 1-3 del D.P.C.M. dell’11 marzo 2020), mentre, nei casi in cui non ha ritenuto di dover sospendere tale libertà costituzionale per non paralizzare il paese, ha provveduto essa stessa, in esito alla valutazione del rischio connesso al contagio che aveva effettuato a monte, ad individuare le misure di contenimento e di prevenzione da adottare nelle organizzazioni produttive. Pertanto, anche ove non sia stato privato della libertà di intrapresa, il datore di lavoro è stato nei fatti, e non solo, esautorato dalla pubblica autorità dalla possibilità di valutazione di quel rischio giacché, trattandosi di un rischio pandemico immanente ovunque, l’eventuale sua valutazione da parte di ogni singolo datore di lavoro (che, pur potendosi avvalere del medico competente – là dove nominato – non avrebbe comunque avuto a disposizione le elevate competenze scientifiche necessarie per valutare adeguatamente un rischio di tal genere e tutte le sue conseguenze), avrebbe rischiato di far emergere misure di prevenzione o non adeguate o, addirittura, diverse da azienda ad azienda: il che, di fronte ad un rischio senza confini, che non si limita a produrre i propri effetti nei soli contesti aziendali, avrebbe potuto generare preoccupanti ripercussioni sul contesto generale”.
In definitiva se il problema riguarda la salute pubblica e solo “di rimando” l’organizzazione imprenditoriale, pare di poter escludere che, negli “ambienti di lavoro non sanitari”, “in seguito alla comparsa del coronavirus il datore di lavoro sia obbligato ad aggiornare la valutazione dei rischi ed il relativo documento come se si trattasse dell’emersione di un rischio insito nella propria organizzazione (in quanto tipico della stessa)”.
La nuova dimensione del sistema di prevenzione aziendale
Il saggio sottolinea poi che se il virus SARS-CoV-2 non è configurabile – “al di fuori di specifiche ipotesi, come ad esempio i servizi sanitari o ospedalieri, o i laboratori – come un rischio certamente insito o potenzialmente emergente nelle ‘normali’ organizzazioni produttive private e pubbliche, è tuttavia evidente che l’agente biologico coronavirus, per come agisce, non… si esime certo dall’aleggiare in tali organizzazioni, nel cui ambito – non lo si può dimenticare – i lavoratori prestano la propria attività (cfr. l’art. 2, lett. a e b, del d.lgs. n. 81/2008)”. In questo senso pur non essendo una vera e propria “fonte” di tale rischio, “l’organizzazione diviene comunque, seppur involontariamente ed incolpevolmente, uno straordinario veicolo per la diffusione del virus stante la concentrazione e la contiguità delle persone che vi operano. Pertanto, quello che costituisce un gravissimo problema di ‘salute pubblica’ per tutta la popolazione nei fatti diviene anche un problema di salute sul lavoro, giacché la stessa presenza nel luogo di lavoro – come d’altronde accade in qualunque altro ambito in cui si trovino insieme più individui (scuole, mezzi di trasporto, teatri ecc.) – rappresenta una delle possibili cause di contagio”.
Nel momento in cui il rischio del contagio da SARS-CoV-2 emerge in un’azienda non sanitaria, “il datore di lavoro non solo non potrà ignorarlo, ma dovrà comunque assumere le cautele precauzionali imposte dalla sua preposizione gerarchica ex art. 2086 c.c., nonché dal suo generale obbligo di sicurezza ex art. 2087 c.c. Per intendersi, pur non dovendosi fare carico dell’applicazione del citato Titolo X del d.lgs. n. 81/2008 sull’esposizione ad agenti biologici (poiché, non essendo il coronavirus un agente biologico ontologicamente insito in quell’organizzazione, esso dà luogo ad un rischio biologico generico e non specifico), il datore di lavoro dovrà tuttavia farsi garante dell’applicazione in azienda delle misure di prevenzione dettate dalla pubblica autorità, spettandogli comunque di valutare e decidere come adottarle nella propria azienda ove esse presentino margini di discrezionalità”.
Tuttavia, “una cosa è l’obbligo del datore di lavoro di rispettare gli obblighi prevenzionistici che gli incombono in relazione alla sua specifica organizzazione, e altra cosa è l’obbligo di attuare le misure prevenzionistiche anti-contagio dettate dalla pubblica autorità, le quali, contrariamente a quanto si potrebbe ipotizzare, non si integrano nel documento di valutazione dei rischi. Una distinzione che si riflette anche sul versante delle sanzioni, non potendosi sostenere che la violazione di una misura di prevenzione anti-contagio dettata dalla pubblica autorità (ad esempio la mancata utilizzazione delle ferie, o dello smart working) integri gli estremi di quelle contravvenzioni in materia prevenzionistica assoggettate, ex art. 301 del d.lgs. n. 81/2008, al regime della prescrizione obbligatoria di cui all’art. 20 del d.lgs. n. 758/1994”. E “fatta salva l’ipotesi della violazione dell’obbligo di utilizzo dei dispostivi di protezione individuale (mascherine) – che, a quanto consta, è l’unica ipotesi in cui ad una trasgressione delle regole anti-contagio si applichi la citata prescrizione ex d.lgs. n. 758/1994 –, quelle violazioni potranno subire altre sanzioni ad hoc, la cui individuazione tuttavia non è semplice”.
Il saggio sottolinea, insomma, che “a fronte di queste situazioni di emergenza, il sistema di prevenzione aziendale può assumere anche una dimensione strumentale o servente rispetto alla soddisfazione di esigenze che trascendono non solo la tutela di un singolo lavoratore, ma addirittura il mero ambito aziendale. Infatti, preservare i lavoratori dal contagio nel luogo di lavoro significa non solo tutelare la loro salute, ma anche far sì che essi non costituiscano un fattore di rischio per i propri familiari o in genere per i terzi”.