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13 Dic

Sicurezza a scuola: è giusta la normativa di riferimento?

Il dibattito in tema di sicurezza sul lavoro all’interno degli edifici scolastici, ha preso spunto dalla recentissima sentenza della IV Sezione della Corte di Cassazione (n. 37766 del 2019) relativa ad un infortunio occorso ad un alunno (o più correttamente ex alunno) del Liceo C. Pisacane di Sapri.

La sentenza – come è noto – ha riconosciuto il Dirigente Scolastico ed il Responsabile per la Sicurezza colpevoli del reato di lesioni colpose in danno di uno studente con condanna al minimo della pena e beneficio della non menzione.

Il dibattito – ribadisco – sta fornendo spunti di riflessione particolarmente interessanti e tutti gli autorevoli interventi si fondano, sia pur da prospettive e con sensibilità diverse, su elementi logici e giuridici in larga parte apprezzabili e sicuramente colti.

Sono stato – unitamente all’Avv. Ferrante – difensore della Dott.ssa Principe in grado di appello e dinanzi alla Suprema Corte di Cassazione ed, ovviamente, mi sembrerebbe inelegante o comunque scarsamente interessante tediare i lettori con la riproposizione di tutte le argomentazioni tecnico-giuridiche su cui si fondavano i motivi di appello e di ricorso per cassazione da me redatti.

Dunque voglio essere chiaro: non utilizzerò questo spazio per dar luogo ad una specie di tempo supplementare per confrontarmi ancora una volta con un assunto accusatorio (e con le relative sentenze di condanna) che – non ne ho fatto mai mistero – non condivido per nulla.

Voglio, invece, provare a ragionare su due temi che in un’epoca di iper-specializzazione sembrano essere completamente scomparsi dal discorso pubblico ed ancor di più da quello giuridico:

  1. È giusta la normativa di riferimento? È sensata? Sono disposizioni che realmente sono idonee a rendere le scuole dei luoghi più sicuri? Oppure si risolvono esclusivamente in un coacervo di norme che hanno l’unica finalità di trovare un capro espiatorio, un colpevole purchessia, secondo la tendenza di ciò che viene definito populismo penale?
  2. Fornita una risposta al primo interrogativo occorre poi chiedersi: era esigibile da parte del Dirigente Scolastico un contegno diverso che avesse una reale efficacia impeditiva dell’evento?

 

Devo dire che sono un po’ stanco di affermazioni – tutt’altro che infrequenti nel mondo giuridico ed ancor più nell’Accademia – che, permeate di apparente buonsenso e di presunta sensibilità istituzionale, si risolvono in realtà in mere tautologie.

Dire sussiegosamente “le norme sono queste ed il giudice si è limitato ad applicarle” rappresenta un atteggiamento che, a mio modo di vedere, priva il diritto di quella spinta propulsiva e progressista che è la stessa ragion di esistere di un sistema che, in ultima analisi, mira a regolare i rapporti tra gli esseri umani.

 

Allora ragioniamo sul senso profondo e sulla condivisibilità o meno della normativa che equipara i Dirigenti Scolastici ai datori di lavoro.

Lo dico in premessa: sull’argomento non ho un approccio massimalista e non nego – sia pur con i dubbi e con le criticità che esporrò brevemente – che l’opzione legislativa prescelta possa avere, in mancanza d’altro, anche degli aspetti astrattamente condivisibili.

Del resto, anche la Cassazione afferma che i presidi sono equiparati ai datori di lavoro sia pur con degli importanti distinguo. Importanti distinguo che, tuttavia, sono soltanto enunciati ma sovente lasciati privi di ogni contenuto.

Ed invero i Dirigenti Scolastici sono gli unici che – nel genus dei datori di lavoro – sono privi di poteri di spesa (non hanno in altri termini risorse economiche da cui attingere in via diretta) e non hanno, nel contempo, autonomia decisionale.

Sono dunque privi propri di quei caratteri che specificano e danno corpo e significato alla locuzione “datore di lavoro”.

Ed allora io capisco – vivo nel mondo, sento gli umori e non li condanno – che vi è una richiesta crescente e sovente pressante di responsabilizzazione.

A ciascuno il suo! Chi sbaglia paga! Basta con le vittime senza colpevole! Sono frasi che ormai riecheggiano a tutti i livelli.

Ma la responsabilizzazione se non filtrata attraverso gli strumenti della cultura, dell’intelletto, della sensibilità diviene colpevolizzazione o peggio cieca criminalizzazione: ci serve un responsabile, la folla ce lo chiede.

Orbene, io non metto in discussione che un preside possa essere responsabile se pone in essere condotte che possano pregiudicare la sicurezza degli alunni (ad esempio decide di allocare un’aula all’interno di uno spazio non sicuro) o se non verifica che, ad esempio, eventuali macchinari utilizzati sono insicuri o malfunzionanti.

Arrivo ad ammettere – sia pur con talune perplessità – che il dirigente possa essere finanche responsabile per infortuni derivanti dal degrado di attrezzi, di porte, finestre … .

Ma trovo veramente inconcepibile, trovo – mi si passi il termine – feroce che un preside possa essere ritenuto responsabile per difetti strutturali o addirittura per caratteristiche dell’immobile in cui è sito l’istituto scolastico.

L’istituto scolastico – lo sappiamo tutti – è infatti mero ospite all’interno di una struttura di proprietà degli Enti Locali. Dell’edificio, dunque, non può che rispondere il proprietario il quale ha peraltro egli stabilito che in quella sede – eventualmente inadatta – si svolgesse l’attività scolastica.

Ed allora – calando tali ragionamenti astratti nel caso concreto avvenuto nella scuola di Sapri – e pur volendo confrontarsi con gli scivolosissimi obblighi di informativa che graverebbero sui presidi (si veda sul punto la sentenza già da molti di voi citata relativa al crollo dell’istituto a L’Aquila), occorre con onestà intellettuale chiedersi: che cosa avrebbe dovuto fare la preside? Avrebbe dovuto informare la Provincia che la terrazza su cui insistevano i lucernai (terrazza esistente sin dalla costruzione dell’immobile) poteva determinare problemi in termini di sicurezza per gli alunni?

Forse che terrazza e lucernai erano stati costruiti nottetempo e senza che il proprietario dell’immobile ne fosse messo a conoscenza? Suvvia, siamo seri!

Davvero crediamo – davvero ci basta, ci tranquillizza – che la normativa antinfortunistica si possa risolvere nell’ennesimo inutile adempimento burocratico, nell’ennesimo timbro, nel mettere le carte a posto?

Non vi era nessuna informazione da dare, nessuna segnalazione da inoltrare che non fosse già debitamente conosciuta dal proprietario del bene. Ecco che la normativa sembra acquistare un’altra finalità: non strumento attraverso il quale aumentare la sicurezza degli utenti ma, più banalmente, abile stratagemma per traslare la responsabilità da un soggetto forte (che ha poteri di spesa e possibilità ed autonomia decisionale) ad un soggetto più debole e meno tutelato (il Dirigente Scolastico).

In un simile quadro, l’unica condotta idonea ad impedire eventuali infortuni era quella di interdire l’accesso e chiudere a chiave la porta del terrazzo su cui insistevano i lucernai e così è stato fatto (sino all’inopinata ed imprevedibile condotta della bidella).

Tutta la pur ampia disquisizione contenuta in sentenza circa presunte carenze in ordine alle modalità di conservazione delle chiavi, agli ordini di servizio a presunti obblighi di formazione del personale risulta – spiace evidenziarlo – completamente fuori-fuoco.

Ed invero, la gestione del luogo terrazza/lucernaio non spettava certamente al preside (non svolgendosi in quel luogo alcuna attività scolastico/lavorativa) bensì ovviamente al proprietario dei luoghi che avrebbe dovuto egli organizzare la gestione delle chiavi e predisporre tutti gli accorgimenti per impedire efficacemente l’accesso al lucernaio della cui effettiva capacità di carico – peraltro – soltanto l’ente proprietario doveva essere necessariamente a conoscenza e non certo la preside.

Viene così in rilievo quello che – a mio parere – è il vero punctum dolens della sentenza della Cassazione. Un tema che, pur esaustivamente evidenziato nel ricorso e nei precedenti gradi di giudizio, è stato completamente obliterato dal Supremo Collegio.

La responsabilità (ed i relativi doveri) del Dirigente Scolastico, nella sua veste di datore di lavoro, non involge l’intero edificio al cui interno è situata la scuola (edificio di cui sono ovviamente responsabili altri soggetti) ma esclusivamente i luoghi in cui si svolge l’attività scolastica (essendo, del resto, egli datore di lavoro esclusivamente rispetto all’attività scolastica strictu sensu considerata).

Ragionando diversamente, si finirebbe per addossare una responsabilità omnicomprensiva in capo al Dirigente Scolastico (con conseguente immotivata deresponsabilizzazione di altri soggetti) in assenza della previsione di risorse e strumenti per far fronte alle eventuali criticità.

Orbene, non vi è dubbio che, nel caso di cui stiamo discutendo, l’incidente sia avvenuto in una porzione di edificio (il lastrico solare/terrazza nel quale erano situati i lucernai) in cui non si svolgeva – né si era mai svolta – alcuna attività scolastica, ragione per la quale è da escludersi l’applicabilità, in capo alla preside, della normativa ex D.Lgv. 81 del 2008.

Trattasi di un dato (l’incidente è avvenuto in un luogo in cui non era prevista ed esercitata alcuna attività scolastica) ritenuto acclarato sin dalla sentenza di primo grado.

E, tuttavia, tale elemento evidentemente assorbente e decisivo è stato superato affermando apoditticamente che il luogo in cui si è verificato l’incidente, pur estraneo all’esercizio dell’attività scolastica, era da ritenersi pertinenza dell’edifico scolastico (o meglio pertinenza dell’attività scolastica) e, dunque, rientrante nella sfera di competenze e responsabilità del Dirigente Scolastico.

Un simile approccio ermeneutico non è a mio avviso condivisibile sia perché del tutto apodittico sia perché erroneo dal punto di vista giuridico e fattuale.

 

In premessa del ragionamento si è evidenziato come la responsabilità del preside/datore di lavoro abbia ad oggetto non l’intero edificio in cui è sita la scuola ma, esclusivamente, quella porzione di edificio in cui è esercitata l’attività scolastica (unica attività per la quale il preside può essere ritenuto datore di lavoro).

Il citato lastrico solare ovviamente non era – per sua natura e come incontrovertibilmente emerso nel corso del processo  – adibito ad alcuna attività scolastica né costituiva un luogo che, pur al di fuori dell’organizzazione scolastica, doveva necessariamente essere percorso dai lavoratori-studenti, essendo posto al di là di una porta che era sempre chiusa a chiave; porta che solo per circostanze imprevedibili e, dunque, non evitabili dal preside (in quel momento neppure presente nella struttura poiché impegnato negli esami di stato in altra sede!), era stata inopinatamente aperta.

In altri termini, il lastrico citato non può in alcun modo essere considerato una pertinenza del luogo di lavoro e, dunque, rispetto ad esso (o meglio rispetto a ciò che in detto lastrico può verificarsi) non sussisteva alcuna posizione di garanzia del Dirigente Scolastico.

 

In tema di significato da attribuire alla locuzione “pertinenza del luogo in cui si svolge l’attività lavorativa”, vale la pena di citare la dotta ed illuminante sentenza n. 40721/2015 della IV sezione della Corte Suprema di Cassazione che consiglio attentamente di leggere e studiare a tutti coloro che sono interessati al tema.

 

Se ne riporta un breve passaggio:

“Tenuto conto quanto appena esposto, si può venire a considerare, che, a mente dell’art. 62 d.lgs. n. 81/2008, si intendono per ‘luoghi di lavoro” i luoghi destinati ad ospitare posti di lavoro, ubicati all’interno dell’azienda o dell’unità produttiva, nonché ogni altro luogo di pertinenza dell’azienda o dell’unità produttiva accessibile al lavoratore nell’ambito del proprio lavoro”.

Proprio il caso in esame rende opportuno rimarcare che, ai fini della individuazione dei soggetti gravati da obblighi prevenzionistici, la identificazione di uno spazio quale luogo di lavoro non può prescindere dalla identificazione del plesso organizzativo al quale lo spazio in questione accede. Lo si ricava dalla definizione, testé riportata, laddove prevede un collegamento di ordine spaziale (“all’interno dell’azienda …”) o almeno pertinenziale tra l’azienda o l’unità produttiva e il luogo di lavoro. E lo implica la logica stessa della normativa prevenzionistica, che attribuisce obblighi securitari a colui che é titolare di poteri organizzativi e decisionali che trovano nei luoghi di lavoro l’ambito spaziale e funzionale di estrinsecazione. Lo stesso Titolo II elenca gli obblighi che il datore di lavoro deve osservare rispetto ai ‘propri’ luoghi di lavoro.

E quindi va puntualizzato che, a differenza di quanto sostenuto dal ricorrente, proprio ogni tipologia di spazio può assumere la qualità di ‘luogo di lavoro’; a condizione che ivi sia ospitato almeno un posto di lavoro o esso sia accessibile al lavoratore nell’ambito del proprio lavoro (cfr. Sez. 4, n. 2343 del 27/11/2013 – dep. 20/01/2014, S. e altro, Rv. 258435; Sez. 4, n. 28780 del 19/05/2011 – dep. 19/07/2011, Tessari e altro, Rv. 250760).

In particolare, può trattarsi anche di un luogo nel quale i lavoratori si trovino esclusivamente a dover transitare, se tuttavia il transito é necessario per provvedere alle incombenze loro affidate. In tal senso già ha avuto modo di esprimersi questa Corte, allorquando ha formulato il principio per il quale nella nozione di “luogo di lavoro”, rilevante ai fini della sussistenza dell’obbligo di attuare le misure antinfortunistiche, rientra non soltanto il cantiere, ma anche ogni altro luogo in cui i lavoratori siano necessariamente costretti a recarsi per provvedere ad incombenze inerenti all’attività che si svolge nel cantiere.

Per contro, e qui si rinviene una grave lacuna motivazionale nella sentenza impugnata, non può parlarsi di luogo di lavoro (da preferirsi in questo caso alla locuzione utilizzata dalla Corte di Appello di ‘ambiente di lavoro’) solo sul presupposto che un qualsiasi soggetto, che é anche prestatore d’opera in favore di taluno, vi si trovi a transitare.

… Diversamente, eventuali obblighi di assicurazione della non pericolosità dell’area potrebbero farsi discendere unicamente dalla proprietà degli spazi; con esclusione, quindi, della violazione di obblighi datoriali e procedibilità a querela del reato.”. (cfr., Cassazione Penale, Sez. 4, 09 ottobre 2015, n. 40721).

 

Non sembra necessario aggiungere null’altro a tale colto ed autorevole canone ermeneutico che risulta integralmente applicabile al caso che ci occupa.

 

Ed invero:

  1. il più volte citato lastrico solare non rientra senz’altro nel genus del luogo di lavoro propriamente detto poiché non era evidentemente un “luogo destinato ad ospitare posti di lavoro, ubicati all’interno dell’azienda o dell’unità produttiva”;
  2. del pari, lo stesso non può essere ritenuto una pertinenza del luogo di lavoro (da intendersi quale luogo necessariamente servente all’esercizio dell’attività lavorativa) atteso che, come chiarito dalla S.C. nella sentenza citata, per pertinenza deve intendersi un luogo – pur estraneo all’esercizio dell’attività lavorativa – in cui i lavoratori (nel caso che ci occupa gli studenti) siano necessariamente costretti a recarsi per provvedere ad incombenze inerenti all’attività che si svolge nell’azienda (nel caso che ci occupa, la scuola); in altri termini, un luogo in cui, evidenzia la Corte, i lavoratori si trovino a dover transitare, se tuttavia il transito é necessario per provvedere alle incombenze loro affidate.

 

Il concetto di pertinenza di un luogo di lavoro è, dunque, modulato sulla base del concetto di accessibilità allo stesso da parte dei lavoratori.

E, tuttavia, come didascalicamente evidenziato dalla giurisprudenza di legittimità, perché si possa parlare di pertinenza di un luogo di lavoro (trovando dunque applicazione la normativa di cui al D.Lgs. 81 del 2008 con tutti i corollari che ne conseguono anche in sede penale) non è sufficiente che detto luogo sia genericamente accessibile, essendo di contro necessaria un’accessibilità per così dire qualificata.

È necessario, in altri termini, che si tratti di una zona in cui i lavoratori debbano necessariamente transitare o, comunque, accedervi per poter svolgere la propria attività lavorativa (dunque un luogo comunque necessario per l’esercizio dell’attività lavorativa).

Di contro, qualora non si tratti di una via di transito necessariamente da percorrere (ed anzi nel caso di specie era un luogo non soltanto non utilizzato ed utilizzabile per l’attività lavorativa ma addirittura interdetto), la responsabilità di eventuali incidenti non potrà che ricadere, ricorrendone le condizioni, sul soggetto proprietario dei luoghi.

 

Rebus sic stantibus, non posso essere d’accordo con chi ha definito, entusiasticamente, perfetta la sentenza di cui stiamo discutendo.

A mio parere la sentenza – pur autorevole nella fonte ed apprezzabile nello stile – non è affatto perfetta.

 

Due sono le ragioni che mi spingono a siffatta affermazione.

In primo luogo – come già esaustivamente evidenziato – la sentenza oblitera il tema principale di discussione e di relativa valutazione e cioè l’estraneità all’attività scolastica del luogo in cui è intervenuto l’incidente, con tutto ciò che ne consegue in termini di assenza di posizione di garanzia in capo al Dirigente Scolastico.

Ma la mia perplessità si fonda anche su un altro argomento forse ancora più importante nell’ambito di un dibattito che, per sua natura, guarda al futuro sia pur attraverso una rilettura critica di una sentenza già emessa.

Io credo che – con la sentenza in discussione – vi sia stato un non condivisibile ritorno al passato.

 

Sul punto, è noto che nei primi anni di vigenza del D.lgs. 81/2008 la giurisprudenza di legittimità si era attestata su di un’interpretazione particolarmente stringente e severa in relazione agli obblighi gravanti sul datore di lavoro a tutela della salute e dell’integrità fisica dei lavoratori.

 

In particolare, si era sostenuta la necessità di un controllo continuo e pressante da parte del datore di lavoro – diretto o per interposta persona – al fine di imporre ai lavoratori il rispetto della normativa. In dottrina, tale modello gestionale era stato definito, non a torto, “iperprotettivo”.

Espressione classica di tale modello era quella giurisprudenza che riteneva esclusa la responsabilità del datore di lavoro, per interruzione del nesso causale, esclusivamente nelle ipotesi di comportamento abnorme da parte del lavoratore. Comportamento abnorme che andava inteso, secondo i giudici del Supremo Collegio, come una condotta del lavoratore imprevedibile, al di fuori del contesto lavorativo e che nulla ha a che vedere con l’attività svolta. Si tratta – a ben vedere – di casi limite e di difficile verificazione pratica, con il risultato di una responsabilità quasi automatica (rectius, oggettiva) del datore di lavoro in caso d’infortunio.

 

Il più recente orientamento giurisprudenziale ha (o forse aveva alla luce di tale ultima pronunzia), invece, abbandonato il modello “iperprotettivo” testé descritto, sostituendolo con il modello cd. “collaborativo”, in cui gli obblighi in materia di sicurezza sono ripartiti tra più soggetti, compresi gli stessi lavoratori.

 

Corollario di tale nuova concezione sorta in seno alla giurisprudenza di legittimità è che la responsabilità del datore di lavoro è esclusa – sub-specie di interruzione del nesso causale – non soltanto in presenza di una condotta abnorme del lavoratore ma anche nel caso di comportamento esorbitante (dalle mansioni affidategli, n.d.r.) dello stesso.

Il comportamento del lavoratore s’intende esorbitante quando fuoriesce dall’ambito delle mansioni, ordini, disposizioni impartite dal datore di lavoro o da chi ne fa le veci, nell’ambito del contesto lavorativo.

 

Pertanto, alla luce di tale orientamento giurisprudenziale – da preferirsi perché maggiormente rispettoso dei caratteri che devono necessariamente informare la colpevolezza in sede penale, valorizzando il principio di responsabilità penale personale di cui all’art. 27 Cost. e correttamente intendendo il ruolo del diritto penale come extrema ratio – il datore di lavoro non è responsabile non solo nel caso di condotte estranee alle mansioni affidate al lavoratore (comportamento abnorme) ma anche nel caso di comportamento che, pur rientrando nel segmento di lavoro del dipendente e pur essendo strettamente connesso all’attività lavorativa, sia assolutamente imprevedibile (comportamento esorbitante).

In pratica quando si discute di attività strettamente connessa con lo svolgimento dell’attività lavorativa, ciò che conta è la considerazione della prevedibilità/imprevedibilità della condotta.

 

Si era assistito, dunque, ad un’evoluzione della giurisprudenza della Corte di Cassazione verso una maggiore considerazione della responsabilità dei lavoratori: si abbandona “il criterio esterno delle mansioni e si sostituisce il parametro della prevedibilità”.

 

Ebbene, nel caso dell’incidente occorso nell’istituto Pisacane (che ha, come è noto, il suo antecedente causale nell’imprevedibile apertura della porta da parte della bidella) tale nuovo modello (quello cd. collaborativo) è stato nuovamente abbandonato per un ritorno ad una visione iper-protettiva.

Iper-protezione, colpevolizzazione, populismo penale.

Sarà forse un segno dei tempi?