La responsabilità nel caso dell’affitto di una azienda
Colui che subentra, in forza di un contratto di affitto di azienda, nella gestione dei locali in cui si svolga una prestazione lavorativa assume la posizione di garanzia del datore di lavoro, essendo irrilevanti le indicazioni contenute nel contratto. E’ questa l’indicazione che emerge dalla lettura di questa sentenza della Corte di Cassazione chiamata a decidere su di un ricorso presentato dal gestore di un albergo contravvenzionato per avere utilizzato luoghi di lavoro non conformi alle norme di sicurezza essendo risultate insufficientemente protette nella struttura le scale e le aperture verso il vuoto ed essendo stata riscontrata altresì la presenza di vetrate nelle porte e nelle finestre in prossimità delle vie di circolazione non costituite da materiali di sicurezza.
In modo analogo si era espressa la suprema Corte in un’altra sentenza, la n. 30927 del 31/05/2019, nella quale la stessa Sezione III, con riferimento all’affitto di una struttura alberghiera, aveva precisato che non osta, all’assunzione degli obblighi di prevenzione da parte del legale rappresentante della società conduttrice, la circostanza che, in base al contratto, la detenzione dei locali venga ceduta nello stato di fatto e di diritto in cui essi si trovino.
Il caso, il ricorso e le motivazioni
Il Tribunale ha condannato il gestore di un hotel per la contravvenzione ex art. 68 comma 1 lett. b), in relazione agli artt. 64 comma 3 lett. a) e 63 comma 1 del D. Lgs. n. 81/2008, per avere utilizzato luoghi di lavoro non conformi alla normativa di sicurezza data la presenza di parapetti delle scale e delle parti prospicienti il vuoto in misura inferiore ad un metro di altezza e la presenza di vetri delle porte vetrate e delle finestre in prossimità delle vie di circolazione non costituiti da materiali di sicurezza.
Avverso tale sentenza ha proposto ricorso per cassazione il difensore dell’imputato.
lamentando che il Tribunale non avrebbe valutato una serie di dati emersi nel processo. L’azienda infatti, ha sostenuto il difensore, era gestita dall’imputato in base a un contratto che attestava che l’albergo, di proprietà di altri, era conforme alle norme; la gestione dello stesso quindi era stata presa in buona fede. Con l’accertamento effettuato dall’organo ispettivo, inoltre, erano state riscontrate delle irregolarità che concernevano aspetti strutturali dell’edificio, non di proprietà dell’imputato, nel quale era esercitata l’attività alberghiera. Il Tribunale, inoltre, avrebbe dovuto escludere l’elemento soggettivo del reato perché l’imputato non avrebbe potuto sapere che l’edificio non era conforme alla normativa in materia di igiene e sicurezza sul lavoro e avrebbe dovuto considerare che l’errore sarebbe stato determinato dall’altrui inganno. Si sarebbe concretizzato secondo il difensore un caso di ignoranza inevitabile della legge penale, per lo scarso livello di scolarizzazione dell’imputato, rispetto ad un reato di creazione legislativa e per la sua buona fede rispetto a quanto indicato nel contratto.
Le decisioni in diritto della Corte di Cassazione
Il ricorso è stato dichiarato inammissibile dalla Corte di Cassazione. Il ricorrente, infatti, ha nottato la suprema Corte, non aveva contestato dì essere il datore di lavoro, cioè, così come definito nel D. Lgs. n. 81/2008, “il soggetto titolare del rapporto di lavoro con il lavoratore o, comunque, il soggetto che, secondo il tipo e l’assetto dell’organizzazione nel cui ambito il lavoratore presta la propria attività, ha la responsabilità dell’organizzazione stessa o dell’unità produttiva in quanto esercita i poteri decisionali e di spesa” e quindi quale datore di lavoro era tenuto a conoscere gli obblighi di cui al D. Lgs n. 81/2008 e ad adempiere le relative prescrizioni. Come tale, quindi, non poteva minimamente invocare l’ignoranza di tali norme.
L’errore di diritto, ha aggiunto ancora la Sez. III, così come anche sostenuto dalla Corte costituzionale con la sentenza n. 364 del 1988, non è mai scusabile nei casi di violazione degli obblighi d’informazione giuridica e versa nella rimproverabile ignoranza della legge penale chi, professionalmente inserito in un determinato campo d’attività, non s’informa sulle leggi penali disciplinanti lo stesso campo. Essendo pertanto pacifica la qualità di datore di lavoro, il ricorrente, in applicazione dell’art. 64 del citato decreto legislativo sugli obblighi del datore di lavoro, doveva provvedere affinché i luoghi di lavoro fossero conformi ai requisiti di cui all’articolo 63, commi 1, 2 e 3 e cioè fossero conformi ai requisiti indicati nell’allegato IV e era poi del tutto irrilevante l’eventuale attestazione contenuta nel contratto di affitto di azienda.
La Sez. III ha quindi ribadito che “in tema di tutela della sicurezza e della salute nei luoghi di lavoro, il principio per cui colui che subentri, in forza di un contratto di affitto di azienda, nella gestione dei locali in cui si svolga una prestazione lavorativa assume la posizione di garanzia del datore di lavoro, essendo irrilevanti le indicazioni contenute nel contratto” e ha in proposito richiamata la sentenza n. 30927 del 31/05/2019 della Sez. III nella quale la Corte, con riferimento all’affitto di una struttura alberghiera, aveva precisato che non osta, all’assunzione degli obblighi di prevenzione da parte del legale rappresentante della società conduttrice, la circostanza che, in base al contratto, la detenzione dei locali venga ceduta nello stato di fatto e di diritto in cui essi si trovino.
Il gestore quindi, ha così concluso la Cassazione è pertanto responsabile, quale datore di lavoro, del reato di cui agli artt. 63 e 64 del D. Lgs. n. 81/2008 qualora ometta di provvedere affinché i luoghi di lavoro siano conformi ai requisiti di cui all’articolo 63, commi 1, 2 e 3, a meno che non dimostri che l’esecuzione degli interventi di adeguamento sia stata resa impossibile dal comportamento del locatore, prova questa non fornita nel caso in esame.
Per quanto sopra detto il ricorso è stato dichiarato inammissibile dalla Corte di Cassazione che, ai sensi dell’art. 616 cod. proc. pen., ha di conseguenza condannato il ricorrente al pagamento delle spese del procedimento e della somma di 3.000 euro in favore della Cassa delle Ammende.