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29 Gen

Il Medico Competente e le irregolarità nella sorveglianza sanitaria

Irregolarità nel rilascio dei giudizi di idoneità, tra cui la “sottoscrizione del certificato da parte di un medico diverso da quello che effettuava la visita” quale “modus operandi anomalo e negligente”

In una sentenza del mese scorso (Cassazione Penale, Sez.IV, 6 dicembre 2019 n.49575), la Suprema Corte si è pronunciata in ordine alla “richiesta di riparazione per ingiusta detenzione patita, nella forma degli arresti domiciliari” avanzata da una Dottoressa la quale era stata “sottoposta alla misura cautelare per i reati di associazione a delinquere e falso nell’ambito dell’esercizio dell’attività sanitaria espletata, quale socio accomandatario della G… s.a.s. di […] (oggetto fornitura di servizi nei settori della qualità, dell’igiene e sicurezza del lavoro), unitamente al marito (legale rappresentante del Centro Medico Associato I. e accomandante della G… s.a.s.).”

 

La ricorrente era stata “assolta in primo grado perché il fatto non sussiste”.

 

La Corte d’Appello di Reggio Calabria aveva rigettato la sua istanza di riparazione per ingiusta detenzione “ravvisando nella condotta della ricorrente la colpa grave ostativa al riconoscimento dell’indennizzo. Più precisamente, il giudice della riparazione ha sottolineato che, secondo quanto accertato dal giudice di merito nella sentenza assolutoria, “le procedure relative alle visite del lavoratori e di rilascio delle certificazioni di idoneità erano state caratterizzate da grossolani aspetti di irregolarità e da illegittime condotte connotate quantomeno da evidente negligenza ed imprudenza” e che la ricorrente era pienamente inserita in questo contesto di superficialità e pressapochismo, partecipando ed aiutando gli altri soggetti coinvolti.”

 

La Cassazione conferma la decisione della Corte d’Appello rigettando il ricorso.

 

Occorre premettere – richiamando le parole della Cassazione – che “il giudizio per la riparazione dell’ingiusta detenzione è del tutto autonomo rispetto al giudizio penale di cognizione, impegnando piani di indagine diversi e che possono portare a conclusioni del tutto differenti sulla base dello stesso materiale probatorio acquisito agli atti, il che, tuttavia, non consente al giudice della riparazione di ritenere provati fatti che tali non sono stati considerati dal giudice della cognizione ovvero non provate circostanze che quest’ultimo ha valutato dimostrate.”

 

Sulla base di tale premessa e con riferimento al caso di specie, la Cassazione ha concluso che “la decisione della Corte di Appello non si è fondata su fatti smentiti dal giudice di merito, con la sentenza di assoluzione, ma proprio sui fatti in essa accertati e, cioè, sullo svolgimento delle visite dei lavoratori e sul rilascio delle certificazioni di idoneità medica con modalità tali che, pur non integrando gli illeciti penali contestati, erano caratterizzate da irregolarità, in cui la ricorrente era pienamente coinvolta (in primo luogo la sottoscrizione del certificato da parte di un medico diverso da quello che effettuava la visita). Tale modus operandi della società, facente capo alla ricorrente, pur essendo stato valutato come penalmente lecito, resta anomalo e negligente e causalmente collegato all’adozione ed al mantenimento della misura cautelare.”

 

 

Il ritardo nella diagnosi da parte del Medico Competente e l’aggravamento della patologia del lavoratore

In una sentenza di pochi mesi fa (Cassazione Civile, Sez.VI, 16 ottobre 2019 n.26190), la Suprema Corte ha rigettato il ricorso dell’INAIL avverso una pronuncia della Corte d’Appello di Lecce (Sezione distaccata di Taranto) la qualeaccogliendo l’appello proposto da M.M., ha riconosciuto che l’aggravamento accertato – con TAC del torace del 2007 – di una grave patologia bronchiale, già evidenziato all’esito del controllo radiologico di routine eseguito presso l’I. s.p.a. nel 2002, “era dipeso dal “ritardo nella diagnosi” ed aveva prodotto a carico dell’appellante un danno biologico pari al 6% condannando l’Inail alle prestazioni di legge, oltre accessori.”

 

L’INAIL aveva ricorso per Cassazione. La Corte rigetta il ricorso.

 

Nel caso di specie, “l’appello proposto dal lavoratore avverso la sentenza di primo grado sollevava specificamente, tra l’altro, la questione dell’incidenza del ritardo nella diagnosi da parte del medico competente aziendale nel processo causale del danno riportato dal lavoratore in conseguenza della patologia sofferta; questione su cui, per contro, nulla dice il ricorso dell’INAIL.”

 

La pronuncia impugnata aveva accertato che la grave patologia, di origine comune, aveva subito un “successivo aggravamento legato ad un fattore di carattere professionale; fattore che la Corte territoriale ha in effetti identificato, sulla scorta della ctu, nel ritardo della diagnosi da parte del medico aziendale e del correlato trattamento terapeutico.”

 

In conclusione, secondo la Corte “il ricorso dell’INAIL risulta privo di specificità dal momento che nulla dice se rientri nella nozione di rischio tutelato ex art.3 TU 1124/1965, alla stregua dell’evoluzione impressa al concetto dalla giurisprudenza di questa Corte (su cui, da ultimo, sent.n.20774/2018 e ord.n.5066/2018), anche l’aggravamento professionale che derivi da un ritardo della diagnosi da parte del medico aziendale e del correlato trattamento terapeutico, secondo la ratio decidendi accolta dal giudice d’appello.”

 

Erroneità del giudizio di inidoneità permanente emesso prima di avere acquisito l’esito definitivo degli accertamenti

Analizziamo ora una sentenza di merito (Tribunale di Ivrea, Sez. Lav., 18 settembre 2017 n.232).

 

In questo caso, un lavoratore “evocava in giudizio T. s.r.l. ed il dott. […] lamentando, da un lato, l’illegittimità del licenziamento irrogatogli dalla società per sopravvenuta inidoneità permanente alle mansioni svolte ed impossibilità di un ricollocamento in azienda e, dall’altro, l’erroneità dei giudizio di inidoneità permanente alle mansioni espresso dal medico competente”.

 

Il Tribunale chiarisce che “la CTU nominata, con ampie e condivisibili motivazioni […] ha concluso il proprio elaborato sostenendo che “il giudizio di inidoneità permanente alla mansione di addetto alla manutenzione espresso dal medico competente il 27 luglio 2015 nel confronti del sig.M. non trova fondamento nell’esito degli accertamenti clinici eseguiti e, pertanto, non è condivisibile né giustificabile” ed evidenziando che “il giudizio è stato espresso senza alcuna motivazione chiarificatrice”.”

 

Secondo il Giudice, “tali conclusioni che traggono origine da una meditata valutazione di elementi anamnestici e clinici e sono sorrette da valide considerazioni medico-legali per quel che riguarda le alterazioni morbose riscontrate in capo al ricorrente, sono pienamente convincenti e devono, dunque, porsi a fondamento della decisione di accoglimento del ricorso.”

 

In particolare, “il CTU ha ben evidenziato che sulla base dei risultati degli esami eseguiti, la dott. dello S.Pre.SAL. di Ivrea, cui era stato presentato il ricorso contro il giudizio di inidoneità, in data 1 febbraio 2016 espresse il giudizio definitivo di idoneità alla mansione di addetto alla manutenzione con obbligo di utilizzo dei dispositivi di protezioni individuale (guanti, mascherine, occhiali) durante le lavorazioni che comportavano effettiva esposizione a sostanze sensibilizzanti e/o irritanti per le vie respiratorie e la cute: nessuna inidoneità permanente alle mansioni, quindi, può ritenersi sussistente nella specie.

Ma v’é di più: nonostante l’esito degli accertamenti (vds. relazione della dott. … del 13 luglio 2015) che di fatto non confermavano una allergia al lattice, in data 27 luglio 2015 il medico competente formulò un giudizio di non idoneità permanente alla mansione, senza motivare alcunché in proposito.”

 

“né sembrano cogliere nel segno” – prosegue la sentenza – “le osservazioni del CTP di parte convenuta, dott., che ritiene che il comportamento del dott. … sia stato improntato all’applicazione del ‘dovuto principio di precauzione’”.

 

Ricostruendo i vari passaggi, il Tribunale sottolinea a questo punto che “non vi è dubbio che (come anche riconosciuto dal C.T.U.) il resistente abbia, dapprima, correttamente avviato gli accertamenti dovuti e, poi, nell’attesa dei risultati, abbia giudicato temporaneamente non idoneo il sig. M.

Il successivo giudizio definitivo di inidoneità permanente, però, non può ritenersi giustificato da un principio di precauzione, poiché venne emesso prima di avere l’esito definitivo degli accertamenti.”

 

Dunque, “siccome la diagnosi definitiva arrivò solo nel gennaio 2016 […], il dott. D. avrebbe dovuto mantenere il giudizio di temporanea inidoneità e/o consigliare lo spostamento di reparto (temporaneo ricollocamento), sino all’esito definitivo degli accertamenti; tra l’altro, il dott., allergologo contattato dal convenuto, non ipotizzò una inidoneità, ma ventilò la necessità di uso di protezioni idonee.”

 

Pertanto – afferma il Tribunale – “si può, senz’altro, concludere, quindi, che l’aver espresso un giudizio di permanente inidoneità quando non c’era ancora il risultato definitivo degli accertamenti eseguiti, possa integrare quanto meno una imprudenza non giustificata: il dott. D., infatti, avrebbe dovuto prescrivere idonei dispositivi di protezione e, poi, rivalutare la condizione clinica del soggetto.”

 

Conseguenza ne è che, “come richiesto dall’attore [il lavoratore, n.d.r.], pertanto, deve essere pronunciata sentenza di condanna generica, nei confronti del convenuto, al risarcimento di ogni danno subito dal sig. M. a seguito del giudizio espresso dal dott. D. in data 27.7.2015”, oltre che alle spese processuali e alle spese relative alla CTU.

 

La mancata attuazione del protocollo sanitario definito in funzione dei rischi specifici

Concludiamo questa breve rassegna, condotta come sempre senza pretese di esaustività, con una sintesi di Cassazione Penale, Sez.III, 14 febbraio 2017 n.6885, che ha condannato un Medico Competente per non aver attuato un protocollo sanitario definito in funzione dei rischi specifici con riferimento a due lavoratori edili.

 

In particolare, la Corte in questo caso ha confermato la decisione del Tribunale che aveva condannato l’imputato ad una sanzione penale pecuniaria “per il reato di cui all’articolo 25, comma 1, lettera b), D.lgs. 9 aprile 2008, n. 81” – reato accertato nel gennaio 2012 – “per aver sottoposto in data 10 maggio 2011 a visita periodica i sig. L.S. e D.M., non attuando un protocollo sanitario definito in funzione dei rischi specifici, considerato che, dall’esame delle cartelle sanitarie e di rischio dei suddetti lavoratori, si evinceva che gli stessi risultavano esposti a rischio MMC (movimentazione manuale dei carichi) e rumore.”

 

Nel rigettare il ricorso, la Cassazione precisa che “i rischi, cui i lavoratori erano esposti, risultavano indicati nelle rispettive cartelle, senza che fossero stati disposti gli accertamenti complementari atti a valutare la funzionalità dei cosiddetti organi bersaglio ossia degli organi particolarmente esposti a rischio per effetto delle mansioni lavorative esercitate.”

 

Secondo la Corte, “il “medico competente”, che procede alla visita, non può basarsi soltanto sul dato anamnestico, che potrebbe essere falsato da una sottovalutazione o ignoranza da parte del lavoratore, né può accontentarsi di prescrivere esami clinici, emettendo al contempo un giudizio di piena idoneità, come invece è accaduto nel caso di specie, senza attendere l’esito dell’accertamento diagnostico-strumentale, che, per entrambi i lavoratori, non era stato richiesto fin dalla visita preventiva, ma solo in una delle visite periodiche successive.”

 

Ma “ciò nondimeno, come emerso dal testimoniale, il ricorrente emise il giudizio di idoneità sia in esito alla visita preventiva che in esito alla successiva visita di controllo, senza prima acquisire ed esaminare il referto audiometrico, particolarmente importante per via delle mansioni esercitate dai lavoratori, esposti al rumore, e ciò a dimostrazione di un modus procedendi superficiale e poco rispettoso dei protocolli sanitari.”

 

La Cassazione conclude precisando che “lo stesso ricorrente si mostra avvertito del fatto che, sulla base della normativa di cui al d.lgs. n.81 del 2008, il medico competente programma ed effettua la sorveglianza sanitaria di cui all’art.41 attraverso protocolli sanitari definiti in ragione ai rischi specifici e tenendo in considerazione gli indirizzi scientifici più avanzati, sicché i protocolli sanitari, in tema di prevenzione degli infortuni e delle malattie professionali, non escludono che il medico aziendale possa prescrivere accertamenti più approfonditi di quelli necessari che, in quanto prescritti dalla buona arte medica, sono perciò contemplati in linee guida o protocolli accreditati dalla comunità scientifica; ma proprio per questo motivo il medico competente non può esimersi dal prescrivere e quindi deve prescrivere quelli minimi richiesti per un’efficace prevenzione che, con accertamento di fatto, adeguatamente e logicamente motivato, il Tribunale ha escluso sia stata assicurata e ciò per la fondamentale ragione che non era stato attuato nei confronti dei lavoratori il protocollo sanitario correlato ai rischi specifici cui essi erano oggettivamente esposti in considerazione delle mansioni in concreto esercitate.”