La formazione non serve a niente?
Chi si occupa di formazione – in particolare in materia di sicurezza – deve spesso scontare un senso di frustrazione determinato dal fatto che essa, indipendentemente dalla sua qualità, produce scarsi effetti in termini di adozione dei comportamenti voluti o di superamento di quelli disfunzionali. In alcuni momenti si è tentati di condividere l’idea che la formazione sia inutile. È proprio la sua mancanza di efficacia che in molti casi viene addotta per giustificare l’inadempienza degli obblighi di formazione o una loro applicazione solo di facciata.
Al di là delle strumentalizzazioni, bisogna ammettere che qualche problema comunque c’è. Non si può in effetti negare che esista un vuoto enorme fra il sapere e l’applicare alla pratica quotidiana quanto si sa. Superare questo gap non è semplice, come ben sa chi ha provato a colmarlo solo aumentando il numero di informazioni trasmesse durante i corsi. E purtroppo non ha ottenuto gli effetti voluti.
Infatti, abitualmente quel che manca non è la conoscenza. Anzi al giorno d’oggi ci troviamo di fronte a una sovrabbondanza di informazioni e i lavoratori soffrono di un’overdose di esse.
Acquisire conoscenze è relativamente facile, a volte persino gradevole, ma il loro possesso risulta inutile se le loro implicazioni in termini di comportamenti non vengono pienamente colte o sono sottovalutate.
Dobbiamo dedurre quindi che l’idea che affiora nei momenti di sconforto (“la formazione non serve a nulla”) sia corretta? Sì e no. Probabilmente è corretta se ci limitiamo a ridurre l’idea di formazione all’effettuazione di un corso, magari in sè ottimo e ben condotto.
Anche se alcune metodologie – in particolare il training on the job e l’action learning in cui esiste un coinvolgimento attivo dei partecipanti – appaiono, almeno nell’immediato, più incisive, raramente riescono a produrre modificazioni comportamentali.
Per ottenere questo risultato, occorre un progetto complessivo, finalizzato a contrastare le diverse ragioni per cui le persone non mettono in pratica quanto sanno. Detto progetto dovrebbe coinvolgere soggetti diversi e intrecciare formazione d’aula a interventi organizzativi e di coaching.
Per quanto riguarda specificamente la parte formativa, si dovrebbe procedere in controtendenza con quanto abitualmente si fa: non aumentare il numero delle informazioni, ma ridurlo e presentare alle persone in modo ricorrente concetti selezionati in relazione all’obiettivo individuato. In sostanza ridurre il numero delle informazioni passate, ma presentarle più spesso focalizzando l’attenzione sulle cose che servono effettivamente a migliorare la prestazione. Dopo aver selezionato con cura i concetti chiave, occorre ripeterli periodicamente, senza aggiungerne altri fino a che si constaterà che quanto è stato insegnato viene effettivamente messo in pratica.
La ripetizione è un principio potente di persuasione, induce ad assumere come vero quanto si è sentito dire più volte e predispone alla condizione denominata “dissonanza cognitiva”, cioè a quello spiacevole stato di disagio in cui si vengono a trovare le persone che sanno una cosa (per esempio “è rischioso non indossare i DPI”) e ne fanno un’altra (“non indosso i DPI”). Il desiderio di superare il disagio può produrre due reazioni opposte: indurre ad adeguarsi a quanto si sa – nello specifico a mettere i DPI- oppure a negare l’attendibilità dell’informazione (“i DPI non servono a niente, non li ho mai messi e non mi è successo nulla”) o della fonte di essa (“che ne sa questo qui, che non ha mai fatto il mio lavoro?”). Quest’ultima ipotesi è resa meno probabile se si ricorre alla reiterazione dei messaggi e alla pluralità dei soggetti che li emettono.
La ripetizione facilita inoltre l’integrazione di quanto ascoltato nel proprio sistema di conoscenze e permette di collegare tra loro i concetti. Ciò facilita l’integrazione delle idee nuove nel sistema cognitivo e operativo di riferimento ed evita che vengano percepite come separate e aggiunte.
In quest’ottica appare chiara la necessità di collegare le attività d’aula con quelle svolte sul posto di lavoro, dove avviene la verifica dell’effettiva acquisizione di quanto insegnato. Emerge anche la funzione dirimente dei preposti, figure chiave nel sistema della sicurezza. Ne consegue che essi debbono essere a loro volta sottoposti a percorsi formativi finalizzati a renderli safety leader.
Un’altra possibile ragione che conduce le persone a non applicare quanto appreso consiste in una sorta di un “filtro negativo” che fa osservare con sospetto le nuove idee e priva della motivazione necessaria per passare dal sapere al fare.
Il filtro negativo deriva dal timore di sbagliare, magari aumentato dall’atteggiamento punitivo dell’azienda nei confronti dell’errore, ma spesso ha radici profonde che affondano nella storia delle persone, frustrate da un passato in cui sono state soggette più a critiche che ad apprezzamenti.
Anche in questo caso, la condizione perchè si superi il pensiero limite (“è impossibile operare come mi chiedono”) in pensiero risorsa (“lo posso fare”) è data dalla cultura aziendale che avalla atteggiamenti mentali positivi o negativi. Un buon modo per incentivare il pensiero risorsa è quello di presentare reiteratamente esperienze positive e sperimentazioni di successo, anche mediante lo storytelling.
È importante infatti guidare i lavoratori in un processo che va dal rifiuto dei cambiamenti richiesti all’assimilazione di essi.
Infine, per passare dal sapere al saper fare è necessario un piano di follow-up da attuare dopo l’apprendimento teorico in modo che le persone non ritornino alle vecchie abitudini. Per modificare stabilmente i comportamenti occorre che ci sia un percorso strutturato, un supporto continuativo e che si favorisca l’acquisizione di un senso di responsabilità personale.
Bisogna cioè spiegare, mostrare, far fare, osservare, rilevare e apprezzare i progressi, reindirizzare i comportamenti disfunzionali. E non basta farlo episodicamente, occorre ripetere questa procedura fino a che non si sono ottenuti continuativamente i risultati voluti ed essi non sono stati incorporati nel pensiero delle persone.
L’attuazione di un efficace processo di follow-up viene consentita solo dall’adesione convinta delle figure apicali che danno un mandato forte ai capi intermedi. Si richiede infatti che essi programmino incontri periodici a scadenze fisse con i subordinati diretti, cosa che necessita di un notevole impegno di tempo e di energie e che rischia di non diventare prassi comune se non entra a far parte della cultura aziendale.
In molti casi i risultati vengono potenziati dall’intervento di coach esterni all’azienda che, dopo un programma di formazione importante, supportano le figure chiave nella costruzione del processo di cambiamento.
Quindi prima che interrogarsi sull’efficacia della sola formazione occorrerebbe esaminare l’intero processo in cui è inscritta.