Blog Single

25 Nov

Sulla responsabilità per l’infortunio di un Vigile del fuoco

Riguarda un infortunio occorso a un Vigile del fuoco questa sentenza della Corte di Cassazione nonché una interpretazione dell’art. 3 comma 2 del D. Lgs. n. 81/2008 e s.m.i. secondo il quale le disposizioni di tale decreto si applicano tenendo conto delle effettive particolari esigenze connesse al servizio espletato o alle particolarità organizzative ivi comprese quelle per la tutela della salute e sicurezza del personale nel corso di operazioni ed attività condotte dalle Forze armate, compresa l’Arma dei carabinieri, nonché dalle altre Forze di polizia. dal Corpo dei Vigili del fuoco e dal Dipartimento della protezione civile fuori dal territorio nazionale.

 

L’infortunio è accaduto durante un addestramento e responsabile dello stesso è stato ritenuto un caposquadra, individuato come preposto, il quale oltre ad avere consentito che il Vigile infortunato, durante un’esercitazione consistita nello scendere mediante una corda da un’altezza di undici metri da una torre di addestramento (castello di manovra), non utilizzasse una fune di sicurezza, aveva comandato allo stesso di compiere una manovra di addestramento non riconosciuta tra quelle previste  nel manuale relativo al livello operativo per il quale il Vigile era abilitato.

 

Alla tesi difensiva secondo la quale ai Vigili del fuoco non si applicano le disposizioni di sicurezza di cui al D. Lgs. n. 81/2008 e s.m.i. la suprema Corte nel rigettare il ricorso presentato dall’imputato, ha sostenuto che non vi è alcuna distinzione tra i Vigili del fuoco e gli altri lavoratori, salvo che per essi possono verificarsi situazioni operative che differenziano la loro posizione, in correlazione con l’accettazione del rischio tipico della loro professione.

 

Fatte salve queste peculiarità il Vigile del fuoco, ha precisato la suprema Corte, non è un lavoratore sottoposto  immotivatamente ad un maggiore rischio solo perché appartiene a tale Corpo per cui non sussiste alcun esonero dall’applicazione delle misure di prevenzione potendosi l’addestramento, con riferimento al caso in esame, realizzare compiutamente anche con la fune di sicurezza che avrebbe impedito la caduta del Vigile senza compromettere il fine dell’addestramento stesso che era quello di acquisire la capacità di scendere da un’altezza servendosi solo di una fune.

 

Il fatto, l’iter giudiziario e il ricorso per cassazione.

Il Tribunale ha dichiarato un caposquadra di un Comando Provinciale dei Vigili del fuoco colpevole del reato allo stesso ascritto e lo ha condannato alla pena di nove mesi di reclusione, oltre al pagamento delle spese processuali e di una somma ritenuta di giustizia in favore delle parti civili costituite. Il caposquadra era stato rinviato a giudizio per violazione dell’art. 590, commi 2 e 3 del codice penale perché, in qualità di preposto e nello specifico quale “responsabile della manovra”, non sovrintendendo e non vigilando sulla osservanza da parte dei lavoratori dei loro obblighi di legge nonché dell’uso dei dispositivi di protezione individuale messi a loro disposizione e, nel caso in esame, invitando addirittura gli stessi lavoratori ad omettere l’adozione della corda di sicurezza, cagionava per imprudenza e negligenza ed in particolare in violazione dell’art. 19 comma 1 lett. a) ed e) del D. Lgs. n. 81/2008, la caduta di un Vigile Esperto in servizio presso lo stesso Comando mentre lo stesso era impegnato in una esercitazione di discesa mediante una fune da un’altezza di circa 11 metri da una torre di addestramento (castello di manovra) provocandogli così delle lesioni (frattura costale multipla sx, contusione polmonare sx, frattura seno mascellare sx con emoseno) giudicate guaribili in più di 365 giorni. Il Vigile infortunato, comandato dal caposquadra di compiere per esercitazione una manovra di discesa dal terzo piano del “castello” mediante una corda singola utilizzando il sistema di discesa denominato gri-gri ma senza corda di sicurezza e quindi comandato di compiere una manovra di addestramento non riscontrabile tra quelle previste nel manuale per il livello operativo per il quale il Vigile era abilitato, era così precipitato al suolo.

 

La Corte di Appello, adita dall’imputato, in parziale riforma della sentenza di primo grado, ha dichiarata la nullità della sentenza in relazione alla condanna del Ministero dell’Interno e ha ridotta la pena inflitta all’imputato a cinque mesi di reclusione eliminando, altresì, la subordinazione della sospensione condizionale della pena al pagamento della provvisionale a favore dell’infortunato che ha ridotta a 100.000 euro.

 

Avverso la sentenza della Corte di Appello l’imputato ha proposto ricorso per cassazione, a mezzo dei propri difensori, lamentando in particolar modo una violazione di legge e vizi motivazionali con riferimento alla ritenuta applicabilità del D. Lgs. n. 81/2008 e alla ritenuta irrilevanza della deroga di cui all’art. 3, comma 2, dello stesso decreto, oltre che una manifesta illogicità della motivazione emergente dal testo del provvedimento impugnato in relazione alla cogente prevalenza delle disposizioni di tale Decreto legislativo rispetto ad ogni diversa indicazione offerta dal legislatore. Il ricorrente ha dedotto, altresì, la irrazionalità del criterio adottato nella sentenza secondo cui non vi è distinzione tra il Vigile del fuoco e gli altri lavoratori e vi è un generale principio di applicabilità del D. Lgs. 81/2008 al lavoro dei Vigili del fuoco.

 

Le decisioni in diritto della Corte di Cassazione.

Il ricorso è stato ritenuto infondato dalla Corte di Cassazione che lo ha pertanto rigettato. La stessa ha infatti evidenziato che il ricorso stesso è stato basato integralmente sulla interpretazione dell’art. 3, comma 2, del D. Lgs. n. 81/2008 ove lo stesso dispone che «nei riguardi delle Forze armate e di Polizia, del Dipartimento dei Vigili del fuoco le disposizioni del decreto legislativo sono applicate tenendo conto delle effettive particolari esigenze connesse al servizio espletato o alle peculiarità organizzative individuate con decreti emanati dai Ministri competenti. Quindi, secondo la tesi difensiva, ai Vigili del fuoco che si addestrano in strutture per ciò predisposte non si applica la normativa a tutela della sicurezza di cui al citato D. Lgs. n. 81/2008.

 

Ha fatto inoltre osservare la Sez. IV che i Giudici di merito hanno ineccepibilmente ritenuto che detta tesi difensiva risulta contrastata dal combinato disposto degli artt. 1 del D.M. 14/6/1999 n. 450 (secondo cui «Nelle strutture … del Corpo nazionale dei Vigili del fuoco … le norme e le prescrizioni in materia di sicurezza dei luoghi di lavoro, contenute nel decreto legislativo 19 settembre 1994, n. 626, e successive modificazioni e integrazioni, nonché quelle delle altre disposizioni di legge in materia, sono applicate nel rispetto delle caratteristiche strutturali, organizzative e funzionali preordinate a realizzare: a) la tutela del personale operante, in relazione alle rispettive specifiche condizioni di impiego, anche con riguardo alla prontezza ed efficacia operativa…») e 304, comma 3, del D. Lgs. 81/2008 (secondo cui «Fino all’emanazione dei decreti legislativi di cui ai comma 2, laddove disposizioni di legge o regolamentari dispongano un rinvio a norme del decreto legislativo 19 settembre 1994 n. 626 e successive modificazioni, ovvero ad altre disposizioni abrogate dal comma 1, tali rinvìi si intendono riferiti alle corrispondenti norme del presente decreto legislativo»). La Corte suprema quindi In buona sostanza ha convenuto con quella territoriale allorquando ha affermato che “La regola generale è che i Vigili del fuoco ed i corpi ad esso assimilati rischiano solo quando ciò non può essere evitato: non esiste come vorrebbe la difesa uno status per cui si può prescindere dalla sicurezza anche quando ciò non sia assolutamente indispensabile”.

 

Secondo la Sez. IV inoltre la Corte territoriale aveva logicamente affermato, che i dispositivi di protezione fanno parte delle misure di sicurezza per lavoratori e il richiamo all’applicabilità del D. Lgs. 81/2008 rende palese che “non vi è distinzione tra il Vigile del Fuoco e gli altri lavoratori, salvo che per essi possono verificarsi situazioni operative che differenziano la loro posizione, in correlazione con l’accettazione del rischio tipico della professione”. “Ma, fatte salve tali peculiarità”, ha così proseguito la Sez. IV, “il Vigile non è un lavoratore sottoposto immotivatamente ad un maggiore rischio solo per l’appartenenza a tale corpo”. Conseguentemente, quindi, non vi è alcuna norma che stabilisca l’esonero dalle misure di prevenzione come nel caso in esame dell’infortunio del Vigile “ove l’addestramento si poteva compiutamente realizzare anche con la corda di sicurezza, che non rendeva più agevole la manovra (nel senso di non compromettere il fine dell’addestramento, che era quello di acquisire la capacità di scendere da un’altezza servendosi solo di una fune), né era incompatibile con la stessa, ma semplicemente impediva danni in caso di errori”.

 

La suprema Corte ha evidenziato, altresì, la carenza comportamentale del Vigile caposquadra il quale, non sovrintendendo e non vigilando sulla osservanza da parte dei lavoratori dei loro obblighi di legge nonché dell’uso dei dispositivi di protezione individuale messi a loro disposizione e addirittura invitando gli stessi lavoratori ad omettere l’adozione della corda di sicurezza, aveva cagionato l’evento infortunistico. Su tale carenza quindi erano stati basati gli addebiti posti a suo carico nella qualità di preposto.

 

Occorre rammentare, ha così concluso la Corte di Cassazione, che nell’ambito della sicurezza sul lavoro emerge la centralità del concetto di rischio, in un contesto preposto a governare ed evitare i pericoli connessi al fatto che l’uomo si inserisce in un apparato disseminato di insidie. Rispetto ad ogni area di rischio esistono distinte sfere di responsabilità che quel rischio sono chiamate a governare; il “garante è il soggetto che gestisce il rischio” e, quindi, colui al quale deve essere imputato, sul piano oggettivo, l’illecito, qualora l’evento si sia prodotto nell’ambito della sua sfera gestoria. Proprio nell’ambito in parola (quello della sicurezza sul lavoro) il D. Lgs. n. 81 del 2008 (così come la precedente normativa in esso trasfusa) ha consentito di individuare la genesi e la conformazione della posizione di garanzia, e, conseguentemente, la responsabilità gestoria che, in ipotesi di condotte colpose, può fondare la responsabilità penale. Nel caso in esame era l’imputato il gestore del rischio, quale onerato della “posizione di garanzia” nella materia prevenzionale, e l’evento si è verificato nell’alveo della sua sfera di competenza.

 

A seguito del rigetto del ricorso, ai sensi dell’art. 616 del codice di procedura penale, il ricorrente è stato condannato al pagamento delle spese del procedimento, oltre che alla rifusione delle spese sostenute dalla parte civile che sono state liquidate in complessivi 4.000 euro oltre accessori come per legge.