Il datore di lavoro e l’uso improprio delle attrezzature di lavoro
Il 21 settembre 2018 la Corte d’appello di Milano, aveva confermato la sentenza emessa dal Tribunale di Milano il 18 dicembre 2017, con la quale un datore di lavoro era stato condannato in relazione al delitto, di cui all’art. 590 cp, con l’aggravante della violazione dell’art. 71, comma 4 lett. a) del D.Lgs. n° 81/2008, in riferimento a un infortunio sul lavoro occorso a fine 2011 presso lo stabilimento dell’azienda. L’infortunio si era verificato ai danni di un dipendente dell’azienda mentre questi era impegnato nella lavorazione di alcuni tubicini in plastica con una attrezzatura di lavoro denominata “spezzonatrice”. La lavorazione prevedeva che i tubicini in plastica, una volta lavorati e tagliati dalla singola macchina con un’apposita lama, venissero raccolti in una scatola ove si posizionavano dopo essere transitati da uno scivolo della macchina stessa. Durante l’operazione, l’operatore, per raccogliere un tubicino dalla scatola, aveva infilato una mano nello scivolo spingendola fino al punto in cui era attiva la lama in modo, così, da subire l’amputazione della falange distale del terzo dito della mano destra con lesioni giudicate guaribili in 91 giorni. Al datore di lavoro veniva contestato di non avere adottato le necessarie misure di sicurezza, con particolare riguardo al dispositivo di protezione originariamente apposto sulla macchina (fissato con apposite viti) e idoneo a impedire che le mani e le dita potessero passare all’interno dello scivolo. In particolare, il datore di lavoro aveva:
- messo a disposizione del lavoratore una attrezzatura di lavoro non conforme alle norme di legge e regolamentari vigenti in quanto privata del citato dispositivo di protezione;
- omesso di prendere le misure necessarie all’utilizzo in sicurezza dell’attrezzatura di lavoro.
La Corte d’appello, nella sua sentenza, a fronte dei motivi di doglianza dell’imputato e riesaminando il caso, aveva comunque concluso che l’imputato, quale datore di lavoro, era venuto meno alle sue responsabilità datoriali e non avendo messo in atto le misure di sicurezza necessarie, non aveva impedito il verificarsi dell’Infortunio pur avendone l’obbligo giuridico.
Il ricorso della difesa, riguardo alla citata sentenza della Corte d’appello di Milano, era stato articolato sulla base di due ben precise motivazioni. Innanzi tutto, secondo la difesa, la Corte di merito aveva attribuito alle prove raccolte un significato diverso da quello effettivo, non considerando alcuni dati fondamentali emersi nel giudizio di merito:
- la rimozione delle viti con le quali era fissato il dispositivo di protezione, visto che questa era una operazione complessa, perché richiedeva ogni volta la necessità di recarsi in officina per prendere gli attrezzi necessari;
- l’avvenuta individuazione e la valutazione dello specifico rischio e le conseguenti misure da adottare;
- la partecipazione dell’infortunato a specifici corsi di formazione e addestramento che smentivano palesemente le dichiarazioni dello stesso;
- l’assunzione acritica delle dichiarazioni dell’infortunato quando costui asseriva che la protezione veniva rimossa sistematicamente dal macchinario, senza però riferire chi fosse a rimuoverla;
- la mancata valutazione delle dichiarazioni di un altro operatore citato quale teste, teste che aveva dichiarato di avere quasi sempre operato sulla macchina con le protezioni inserite, limitandosi a riferire che, se egli veniva visto operare con le protezioni smontate, veniva redarguito dagli addetti al controllo;
- l’omessa valutazione della relazione del consulente della difesa a proposito della successiva installazione di un dispositivo in plexiglas (dispositivo apoditticamente ritenuto più idoneo di quello precedente a fini di protezione) e della conseguente individuazione del comportamento alternativo lecito che il datore di lavoro avrebbe dovuto tenere.
Il secondo motivo di ricorso riguardava la violazione di legge in relazione alla ritenuta equivalenza delle attenuanti generiche, a fronte del fatto che vi erano elementi, come l’avvenuto risarcimento del danno, che avrebbero dovuto condurre a un giudizio di prevalenza. La Cassazione Penale, Sez. 4, con la sentenza n. 20833 del 15 maggio 2019, ha giudicato fondato il primo motivo di ricorso. Secondo la Suprema Corte, la Corte di merito ha sostanzialmente ritenuto sussistente la violazione dell’art. 71 comma 4, lett. a) del D.Lgs. 81/2008, che fa obbligo al datore di lavoro di verificare la sicurezza delle macchine introdotte nella propria azienda e di rimuovere le fonti di pericolo per i lavoratori addetti all’utilizzazione di una macchina. Secondo la Corte d’appello di Milano, il rischio che si era concretizzato (derivante da un uso improprio e non sicuro delle macchine spezzonatrici) sarebbe stato conosciuto o quanto meno conoscibile da parte del datore di lavoro, ma non sarebbe stato da lui adeguatamente fronteggiato. Per la Corte di merito sarebbe stato comprovato che i lavoratori procedevano in modo non episodico, ad eseguire le lavorazioni senza la protezione della quale la macchina era corredata, soprattutto per poter rimuovere i tubicini in plastica rossa (che avevano la tendenza ad appiccicarsi sulle pareti del macchinario), e ciò sebbene la rimozione della protezione fosse manovra che richiedeva di agire sulle viti di fissaggio e nonostante il fatto che i lavoratori eseguissero tale manovra in modo da non farsi vedere dal personale dell’azienda preposto alla vigilanza, per come riferito in particolare da un teste. Per tale motivo la Corte di merito ha ritenuto che il datore di lavoro, pur mettendo a disposizione degli operatori un’apparecchiatura provvista della protezione, sarebbe stato a conoscenza della sopra descritta prassi elusiva e cioè del fatto che tale protezione veniva in alcuni casi rimossa e, nonostante ciò, non avrebbe preteso che l’uso dell’attrezzatura di lavoro avvenisse in conformità alle norme d’utilizzo, omettendo di attivarsi per impedire che le macchine spezzonatrici fossero impiegate senza il dispositivo di protezione e che i dipendenti, anche solo accidentalmente, posizionassero le dita o le mani in corrispondenza della zona di taglio, come accadde all’infortunato.
Secondo la Cassazione, però, le motivazioni addotte dalla Corte di merito Corte di merito, non forniscono alcuna certezza che il datore di lavoro fosse o potesse essere realmente a conoscenza di tale prassi, pur ammettendo che essa fosse davvero così diffusa e frequente come affermato dall’infortunato e, in parte, da un teste. La Corte di merito, secondo la Suprema Corte, trascura un aspetto importante e cioè che la rimozione della protezione, come raccontato da un teste, era eseguita dai lavoratori in modo da non essere notati dal personale preposto al controllo, in quanto questo non avrebbe tollerato tale condotta.
Questa situazione, pertanto, dimostra che il datore di lavoro aveva organizzato, tra l’altro, anche un’attività di verifica e controllo del rispetto delle norme di sicurezza e ciò costituiva un primo elemento deponente per la presenza in azienda di un sistema di vigilanza finalizzato ad assicurare l’esecuzione dell’attività lavorativa nel rispetto delle norme di legge e regolamentari vigenti. Pur ammettendo il fatto che il personale preposto a sovrintendere le attività lavorative fosse a conoscenza della prassi scorretta di bypass della protezione, la dipendenza gerarchica dal datore di lavoro non può automaticamente portare alla conclusione, come fatto dalla Corte di merito, che questi fosse messo a conoscenza che i lavoratori rimuovessero, più o meno abitualmente, la protezione sulle attrezzature di lavoro denominate spezzonatrici.
Questo perché, secondo la Suprema Corte, il rapporto di dipendenza gerarchica, dal datore di lavoro, del personale preposto a sovrintendere le attività lavorative <<non costituisce di per sé prova né della conoscenza, né della conoscibilità, da parte di quest’ultimo, di prassi aziendali (più o meno ricorrenti) volte ad eludere i dispositivi di protezione presenti sui macchinari messi a disposizione dei dipendenti>>. Inoltre, sempre per la Suprema Corte, non si è tenuto conto della struttura organizzativa e delle dimensioni dell’azienda mentre ciò avrebbe potuto avere un peso nella ricostruzione della conoscibilità di prassi aziendali conosciute ed accettate dal datore di lavoro seppur in palese violazione delle norme di legge e regolamentari vigenti. La Cassazione afferma che il datore di lavoro è responsabile dei mancati interventi aventi come obiettivo quello di garantire l’uso in sicurezza delle attrezzature di lavoro dotate delle protezioni richieste e di non esigere che tali protezioni vengano mantenute in posto in perfetta efficienza. Però, nel caso di <<infortuni derivanti dalla rimozione delle protezioni a corredo dei macchinari, anche laddove tale rimozione si innesti in prassi aziendali diffuse o ricorrenti, non si può ascrivere tale condotta omissiva al datore di lavoro laddove non si abbia la certezza che egli fosse a conoscenza di tali prassi, o che le avesse colposamente ignorate>>. In altre parole, qui la Cassazione demolisce il concetto, ancora molto radicato sia negli organismi di vigilanza che nella magistratura inquirente e giudicante, che un datore di lavoro, a prescindere dalla struttura e dimensioni dell’azienda, debba sempre sapere cosa avviene, momento per momento, nei vari reparti della propria organizzazione ed intervenire per porre rimedio ad eventuali comportamenti o situazioni pericolose. Certamente, non è discutibile una palese responsabilità del datore di lavoro nel caso in cui la rimozione delle protezioni alle attrezzature di lavoro derivi da una precisa volontà il cui obiettivo è quello di aumentare la produttività. Quando, invece, non è deducibile, da parte del datore di lavoro, come nel caso in esame, la conoscenza o la certa conoscibilità di prassi aziendali scorrette ed incaute adottate dai lavoratori, nonostante la sussistenza di un’organizzazione prevenzionale volta a prevenire comportamenti o situazioni pericolose, secondo la Cassazione <<è necessaria l’acquisizione di elementi probatori certi ed oggettivi che attestino tale conoscenza/conoscibilità>>. In caso contrario, ci si troverebbe in una situazione in cui, in capo al datore di lavoro, si concretizzerebbe una responsabilità penale derivante esclusivamente dalla posizione apicale ricoperta ma tale <<da eludere l’accertamento della prevedibilità dell’evento – imprescindibile nell’ambito dei reati colposi – e da sconfinare, in modo inaccettabile, nella responsabilità oggettiva>>. Con tali motivazioni, la Cassazione Penale ha annullato la sentenza di condanna del datore di lavoro rinviando a diversa Corte d’appello di Milano per un nuovo giudizio dove dovranno essere attentamente valutati gli aspetti prima evidenziati.