La mancata predisposizione di misure di sicurezza per i lavori in quota
Di fronte ai dati infortunistici che ci mostrano come siano tornati ad aumentare gli infortuni mortali, si moltiplicano le iniziative di promozione della prevenzione in un ambito, quello dei lavori in quota, che nasconde molte insidie e pericoli per i lavoratori.
Torniamo ad affrontare anche il tema delle responsabilità delle cadute attraverso la presentazione di una nuova sentenza della Corte di Cassazione relativa ad un infortunio mortale causato da una caduta da una scala a pioli.
Nella Sentenza n. 40679 del 13 settembre 2018 la Cassazione (Cassazione Penale, Sez. 3) si interviene, in particolare, su un’altra sentenza della Cassazione, la sentenza del 11 gennaio 2017 con la quale la Cassazione, IV Sezione aveva “rigettato i ricorsi, proposti da B.D., C.G. e S.O., confermando la sentenza del 21.09.2015 della Corte d’appello di Ancona, con la quale i medesimi erano stati condannati alla pena di anni uno e mesi sei di reclusione, in quanto riconosciuti colpevoli del reato di cui agli artt. 110 e 589, primo e secondo comma, c.p., per aver cagionato”, in qualità di responsabili legali e soci della XXX s.r.l., “per colpa, consistita nell’aver omesso di verificare l’utilizzo di idonei mezzi ad evitare cadute dell’alto (in particolare del trabattello), la morte di C.L., caduto dall’altezza di tre metri da una scala a pioli mentre effettuava la saldatura di una condotta per la fornitura del gas”.
In relazione a tale sentenza, gli imputati hanno proposto congiuntamente ricorso straordinario per errore di fatto. E ne hanno chiesto l’annullamento “per l’errore di fatto in cui sarebbe incorsa la corte, condividendo il giudizio formulato dalla corte di appello, nonostante gli imputati ne avessero sottolineato la contraddittorietà (ove affermava che gli imputati, pur essendosi preoccupati di fornire sufficienti mezzi di salita per effettuare i lavori, non si fossero preoccupati di fornire ai lavoratori strumenti adeguati sotto il profilo antinfortunistico, e al tempo stesso riconoscendo che i datori di lavoro avevano messo a disposizione solo due trabattelli ed una scala che, nella prospettazione difensiva, erano appunto i mezzi idonei a prevenire le cadute previsti nel POS, dovendosi escludere l’obbligo di fornire altri e diversi mezzi non identificati)”.
Secondo i ricorrenti anche la motivazione circa la mancata istruzione delle procedure da seguire “sarebbe frutto di un errore percettivo della Corte”, atteso che i testimoni “hanno riferito, sul punto, solo in merito alle proprie posizioni personali, non dichiarando alcunché circa le informazioni che erano state fornite dagli imputati al C.L., risultando quindi non provata la circostanza che la persona offesa avrebbe operato in assenza di corrette informazioni”. Un altro errore di fatto della Corte di Cassazione avrebbe riguardato le cause del decesso della persona offesa che, secondo i ricorrenti, “era riferibile ad infarto”.
Le indicazioni della Corte di Cassazione
Secondo la Corte il ricorso è manifestamente infondato “perchè non viene prospettato un difetto riconducibile alla nozione di errore di fatto rilevante ai sensi della norma evocata”.
A questo proposito si indica che l’errore di fatto idoneo a dare luogo – con riferimento all’art. 625 bis (Ricorso straordinario per errore materiale o di fatto) del Codice di Procedura Penale – all’annullamento della sentenza della Corte di cassazione “è solo quello costituito da sviste o errori di percezione nei quali sia incorsa la Corte nella lettura degli atti del giudizio di legittimità: errore connotato dall’influenza esercitata sulla decisione dalla inesatta percezione di dati processuali, il cui svisamento conduce ad una sentenza diversa da quella che sarebbe adottata senza l’errore di fatto (cass. Sez. 6, Sentenza n. 25121 del 02/04/2012 Cc. dep. 22/06/2012 Rv. 253105; Sez. un. 27 marzo 2002, dep. 30 maggio 2002, n. 16103) con esclusione di ogni errore valutativo o di giudizio”.
La sentenza, che vi invitiamo a leggere integralmente e che si sofferma proprio sulle specificità di un errore di fatto censurabile secondo il già citato articolo del c.p.p., sottolinea che “esulando dall’errore di fatto ogni profilo di diritto o valutativo esso coincide con l’errore revocatorio – secondo l’accezione che vede in esso il travisamento degli atti nelle due forme della ‘invenzione’ o della ‘omissione’ – in cui sia incorsa la stessa Corte di cassazione nella lettura degli atti del suo giudizio”. E, ciò premesso, tutte le doglianze proposte dai ricorrenti “esulano dai confini del rimedio esperito, avendo la corte svolto correttamente il proprio giudizio di legittimità, senza incorrere in alcun errore di fatto”.
Si sottolinea poi che la Corte ha correttamente evidenziato, “esaminando la censura in relazione alla quale si era dedotto, tra l’altro, che il C.L. lavotava in maniera autonoma e che nulla potevano fare i committenti che quel giorno non si trovavano in cantiere, come il C.L. fosse inserito organicamente all’interno dell’impresa e come, dunque, dato l’effettivo rapporto di dipendenza sia pure temporanea, con gli odierni imputati, suoi datori di lavoro, gli stessi potessero ritenersi responsabili dell’infortunio lavorativo in ragione della mancata predisposizione, nel cantiere ove la persona offesa in era stato chiamato a svolgere la sua prestazione lavorativa, di tutte le misure idonee ad evitare le cadute dall’alto, consentendo che il lavoratore eseguisse il dovuto in condizioni di pericolosità, escludendo il rilievo della comprovata esperienza professionale del C.L., poiché lo stesso, che rivestiva laqualifica di saldatore, non aveva assunto il rischio specifico del lavoro in quota, che era stato, peraltro, espressamente previsto nel POS relativo al cantiere, senza però una corretta istruzione e vigilanza sulle giuste procedure da seguire (in tal senso le deposizioni testimoniali indicate nell’impugnata sentenza ed il riscontro di due soli trabattelli ed una scala)”.
E in nessun errore incorre la corte nell’affermare che “la Corte territoriale abbia motivatamente disatteso la doglianza relativa al mancato nesso di casualità tra l’evento mortale e l’omessa istruzione/adozione delle normative sulla sicurezza nel lavoro, avendo i datori di lavoro non adempiuto alla propria obbligazione di garanzia in favore degli operatori esposti al rischio, consistente nel verificare sul rispetto delle norme antiinfortunistiche da parte dei lavoratori, il che comporta la responsabilità datoriale anche quando lo stesso comportamento del lavoratore infortunato abbia dato occasione all’evento, essendo questo da ricondurre alla mancanza di quelle cautele che, se adottate, lo avrebbero neutralizzato, con il solo limite del comportamento anomalo, assolutamente estraneo alle mansioni attribuite esorbitante ed imprevedibile rispetto al lavoro posto in essere (Sez.4, 5 marzo 2015 n. 16397, Rv.263386; Sez.4, n.22249 Rv 259228, Sez.4, n. 18202 del 22 aprile 2016, imp. Ganau.)”.
Infine è infondata anche la doglianza relativa al “mancato espletamento della perizia in ordine alle reali cause del decesso della persona offesa”. A questo proposito la Corte ha osservato, “che i Giudici di merito avevano già riscontrato la doglianza, in base agli accertamenti in atti, mediante una motivazione immune da qualsivoglia vizio, evidenziando come il lavoratore, precipitato al suolo, aveva subito, a causa dell’impatto con il terreno, gravissimi e plurimi traumi, con inarrestabile emorragia interna, che ne aveva determinato l’immediato decesso. Un eventuale infarto come causa ultima dell’evento mortale è stato perciò ritenuto irrilevante, essendo incontrovertibile il nesso di causalità ex artt.40 e 41 c p”.