Prevedere e ridurre i rischi dei disastri naturali e artificiali
Sono molti i disastri ambientali, le calamità naturali, i disastri tecnologici avvenuti nel mondo ingenerando nel tempo una “emergenza sempre più crescente a livello internazionale”. E se a questo riguardo gli organismi internazionali hanno “messo a punto strumenti svariati per il monitoraggio quantitativo e qualitativo di tali fenomeni”, uno degli aspetti più dibattuti riguarda la previsione e prevedibilità dei disastri e le implicazioni che ciò comporta.
Per affrontare il futuro occorre “ripartire dalla conoscenza, dai problemi e dai limiti della ricerca, ma anche dalle sue conquiste. Con difficoltà i saperi scientifici oggi si raccordano con il sentire diffuso del Paese, che resta per lo più estraneo ai temi del rischio e quasi rassegnato al fatalismo”. Tuttavia le scienze umane “possono interagire con questi temi, non solo come volani culturali, ma anche elaborando dati sul passato”, ad esempio ricavando utili informazioni dai disastri passati, “favorendo riflessioni sul senso del rischio e del futuro nella nostra società”.
In particolare “si può affermare che oggi le conoscenze scientifiche sono tali che anche calamità come terremoti, eruzioni vulcaniche, alluvioni, etc., possono essere previste esprimendo un grado di probabilità del manifestarsi dell’evento, e delle sue tragiche conseguenze. Non sappiamo solo con precisione quando si verificheranno, ma sappiamo che ‘prima o poi si verificheranno in un determinato luogo’. La maggior parte delle catastrofi si ripetono spesso negli stessi luoghi causando danni e lutti talvolta molto gravi. Oggi possiamo dire che conosciamo sia dove potrebbero verificarsi, con quale probabilità e con quale intensità, e quali contesti colpiranno (patrimonio culturale, caratteristiche naturali e costruttive). Questa conoscenza implica, sia dal punto di vista economico, sia dal punto di vista delle conoscenze, l’obbligo di agire. Il ‘non agire’ comporterebbe per la classe dirigente una chiara assunzione di responsabilità”.
Diventa, insomma, necessaria una cultura dei disastri.
Sappiamo che in generale “i disastri naturali cui siamo abituati come terremoti, alluvioni, eruzioni vulcaniche, etc., colpiranno in futuro aree sempre più popolate, producendo danni sempre maggiori. Con l’aumento della densità di popolazione e l’utilizzo intensivo del suolo, infatti, sempre più persone saranno esposte a rischi naturali e di conseguenza le perdite umane ed economiche saranno maggiori”.
Non c’è, insomma, bisogno di stimare con precisione questa probabilità “per poter affermare che il nostro futuro sarà, più del passato, interessato da questi fenomeni”, ma agire. E ciò implica la “necessità di comprendere la fenomenologia di questi eventi in funzione della tipologia degli stessi e delle cause generatrici. Considerando che la fenomenologia dei disastri nella sua complessità comporta una ciclicità inevitabile, è fondamentale dotarsi del minimo grado di conoscenza degli effetti dopo aver indagato sulle cause, per sapere poi con quali elementi confrontarsi, reali o presunti, in fase di pianificazione e gestione”.
In una sola parola è necessario “valutare il rischio disastri e mettere in campo delle misure di prevenzione e protezione”.
Tenendo conto che molte comunità vivono in località “continuamente sottoposte al rischio di disastri”, si può sviluppare una cultura dei disastri che spinga le persone ad un approccio attivo nei confronti di questi fenomeni. “In tali condizioni, anche in assenza di qualsiasi previsione, molte persone non soltanto sono consapevoli del rischio a cui sono sottoposte, ma spesso prendono misure adeguate per difendersi da questi eventi. L’esistenza di una consolidata cultura dei disastri della comunità interessata, genera di conseguenza un impegno della classe politica lungimirante, con una visione a lungo termine, indirizzata verso uno sviluppo sostenibile in grado di ridurre significativamente il rischio e l’ impatto dei disastri”. Il problema è che “spesso le comunità, non riescono a dare una risposta condivisa e di lungo periodo al problema dei disastri, ossia a formare una solida cultura dei disastri, anche se non mancano esempi positivi in tal senso”.
Si ricorda che la valutazione del rischio consiste nella valutazione globale delle probabilità di accadimento e della gravità allo scopo di individuare le adeguate misure di sicurezza (azioni) da intraprendere. E “in riferimento alla equazione del rischio quanto maggiore è la probabilità (pericolosità), tanto maggiore è il rischio. A parità di pericolosità invece il rischio aumenta con l’aumentare del danno (popolazione, insediamenti abitativi, attività produttive, infrastrutture, beni culturali)”. L’equazione è di per se stessa esauriente a condizione che il dato relativo al danno venga stimato in modo corretto.
E la “vulnerabilità” è definita come una “condizione risultante da fattori fisici, sociali, economici e ambientali, che aumentano la suscettibilità e la sensibilità ad essere danneggiato dall’evento”. E in questa accezione la vulnerabilità è costituita “da due componenti (sensibilità e suscettibilità) in cui anche la resilienza e resistenza è ricompresa”.
In definitiva la riduzione del rischio disastri, la sua mitigazione deve mirare a “ridurre al minimo la vulnerabilità di una comunità nei confronti dell’ evento disastrogeno”.
E anche se “ci sono stati progressi significativi nella ricerca e della scienza associati ai rischi naturali negli ultimi 20 anni e miglioramenti nella tecnologia e comprensione di questo tipo di rischio”, è proprio su come ridurre la vulnerabilità che si deve concentra la massima attenzione.